Chi ama Stephen King ha riconosciuto uno dei suoi aforismi più famosi. Sa anche che si trova in uno dei suoi racconti più belli, che è anche una delle più belle storie di coming of age (ovvero il momento che segna il passaggio dall'infanzia all'età adulta) che personalmente abbia letto.
E' un principio che può essere più o meno valido. Una buona storia può catturare l'interesse anche se chi la narra non vale granché. Ma va da sé che se il narratore sa il fatto suo, avrà la completa attenzione di chi lo ascolta. E se, dote rara, sa davvero il fatto suo, la avrà anche se la storia, benché buona, non dice nulla che l'uditore non sappia già.
Clint Eastwood è un narratore che sa davvero il fatto suo. Lo ha dimostrato infinite volte. Chi volesse averne la riprova, la avrà con Gran Torino. Che considerando il ritmo con cui film, libri e quant'altro vengo prodotti e digeriti dal mercato, è ormai vetusto: è uscito nel 2008. Ma l'anno di produzione non conta, perché si tratta di un classico nel più puro senso della parola. Un classico che ha il contempo il pregio di essere atipico: è un film che racconta una storia, e la racconta dall'inizio alla fine.
La storia in sé è già nota. Il protagonista è un uomo anziano e burbero, afflitto da due figli della consistenza di un budino e da nipoti adolescenti che sono la quintessenza della stupidità più gretta e modaiola. Morta la moglie, si ritrova unico bianco o giù di lì in un quartiere che pullula di immigrati. Immigrati che lui chiama con garbo swamp rats (letteralmente "pantegane di palude", ma si potrebbe rendere in maniera assai meno gentile), visto che, oltre a essere anziano e burbero, Walt Kowalski è anche la quintessenza del più retrivo americano medio: praticello di un metro quadro perfettamente rasato, fucile di precisione in casa, ghiacciaia colma di lattine di birra sulla veranda che è, ça va sans dire, adorna di una bandiera a stelle e strisce formato lenzuolo.
Il fatto che sia un reduce della guerra di Corea non contribuisce a renderlo ben disposto nei confronti dei vicini, musi gialli di provenienza ignota che hanno pure il cattivo gusto di celebrare con gran dispendio di festa e folla un battesimo nel mentre che a casa sua si sta tenendo il rinfresco dopo il funerale dell'amata consorte. E che uno dei musi gialli, un ragazzo adolescente scarso a spina dorsale e fin troppo prono a farsi sviare da un cugino gangster d'accatto, tenti di rubargli la sua Ford Gran Torino, lo rende ancor meno ben disposto.
Con questi presupposti, lo spettatore smaliziato fa presto a fare due più due: scommette, e sa di vincere in partenza, che fra il vecchio americano flessibile quanto il marmo e i suoi vicini asiatici si instaurerà una relazione. Sa pure che nel percorso non mancheranno intoppi di vario genere. E sa che alla fine il tutto sarà di beneficio e crescita per entrambe le parti. Ma nonostante sappia, quella storia la vuole sentire e vedere: perché chi la racconta è un narratore eccezionale. E come tutti i narratori eccezionali, sa sorprendere.
Fra i pregi di Eastwood c'è il sapersi affidare a compagni di viaggio sperimentati, saper riconoscere del materiale valido, saperlo trattare. La sceneggiatura lo aiuta: i dialoghi non hanno un momento di stanca. Non c'è bisogno di saltare avanti e indietro a suon di flashback, né di indulgere in colpi di scena: una comunissima fetta di vita è sufficiente a sostenere il tutto, e lo è anche perché, essendo comunissima, è paradigmatica. Gli attori sono solidi. La fotografia ha un nitore documentaristico, la musica c'è quando ci vuole. Ogni dettaglio ha il suo peso, e contribuisce a dar peso alla storia. E nonostante ormai anche un bimbo si ritrovi ingozzato di postmodernismo da ogni parte con il risultato di trovare tutto già visto, trito e per questo persino ridicolo ("Si può dire 'Era una bella mattina di fine novembre' senza sentirsi Snoopy?", osservò una volta qualcuno), Eastwood ha pure il coraggio di impiegare i cliché. E li impiega così bene che non sono più cliché: tornano ad essere archetipi.
Altrettanto archetipica è la funzione dei valori all'interno della trama (di cui non dirò niente, perché va bene che la storia è intuibile, ma rivelarla sarebbe pura cattiveria). Credo che ci siano poche cose più soggette a sfottò dei valori: non a torto, visto che è da quando è nato il mondo che se ne parla giusto per dare una risibile patina di decoro a una realtà lercia quanto una sentina. Ma come disse un regista che non potrei immaginare più lontano da Eastwood, "fare i cinici è molto facile". La vera scommessa per un narratore è evitare il cinismo senza cadere nella stucchevolezza. Eastwood ha un equilibrio invidiabile, tanto più evidente quanto meno si vedono sullo schermo i modi con cui lo raggiunge. E riesce a trasmettere senza alcuna sdolcinatezza il valore di una famiglia i cui membri si vogliono bene, dei risultati ottenuti attraverso il duro lavoro, del rispetto di sé e degli altri, di un amore così forte da durare anche dopo che morte separa.
Sono cose che al naso di qualcuno puzzano di conservatorismo. Il conservatorismo è stato spesso rimproverato a Clint Eastwood, e per i personaggi intepretati e per alcuni film che ha diretto. Personalmente, la ritengo una fesseria. Basta vedere il ruolo che nelle sue opere da regista hanno le donne. Gran Torino non fa eccezione, se si escludono la nipote avida e imbecille e la sua altrettanto avida e imbecille madre: la giovane Sue, vera coprotagonista del film e la sola capace di tener testa a Kowalski grazie a una lingua tagliente e a un cervello che lo è ancora di più, la sua rocciosa nonna che scambia con il rigido vicino eloquenti dialoghi a suon di occhiate, le numerose comprimarie che crescono piccoli delle più varie età e imbandiscono al protagonista manicaretti meravigliosi sono tutti tasselli di un'unica immagine di donna come individuo capace di pensare, decidere, procreare, nutrire, potente e ricco di significato a qualunque età.
Individui a confronto dei quali i maschi fanno una figura ben meschina: a parte casi rarissimi sono o amebe di aspetto e di fatto, o amebe truccate da delinquenti dotati di pistole ma privi di palle, in grado di imporsi solo con la violenza. Considerato attore e regista virile per eccellenza, Eastwood dedica all'universo femminile gran parte dell'attenzione: lo fa con prospettiva da uomo, ma è capace di cogliere aspetti che non tutti gli uomini sanno cogliere. E a volte, manco le donne.
In tutto questo, l'attore e regista è l'anima del film: espressione abusata, ma mai vera come in questo caso. Clint Eastwood è da tempo un'icona, ma nonostante ciò è capace di dare corpo in maniera credibile al protagonista e alla sua interazione con gli altri personaggi (delle donne ho già detto, degli uomini non dico perché se c'è un simbolo per eccellenza del buddy movie è lui). Si sa che è noto per avere due espressioni, ovvero una quando gli manca il cappello: e nessuno come lui riesce a trasmettere le emozioni più diverse con un battito di palpebra, un cenno della testa o semplicemente fissando lo sguardo. Tanto più esprime il movimento del corpo, la postura delle spalle, la camminata decisa e appena sbilenca da vecchio solido. Esatto opposto di un istrione, Eastwood è uno di quei rari attori che nel tempo hanno raffinato l'arte di ottenere il massimo risultato con la massima economia. E' banale ossevare che è un piacere guardarlo, ma è vero: è un piacere guardarlo.
E' un piacere anche vedere il film, in tutto il suo dipanarsi verso una fine che è nota. E che però stupisce, e stupirà tanto più chi ha in mente Eastwood nel suo ruolo primigenio di giustiziere. Il finale vi allude, e allo stesso tempo lo risolve. Non vi dico come. Perché lo ripeto, se non avete visto Gran Torino, lo dovete vedere. E' uno di quei film che fanno bene al cuore.
Fa bene al cuore perché, oltre al piacere di guardare un'opera fatta con maestria e cognizione di causa, restituisce il piacere del coinvolgimento senza distanza, e senza sentirsi stupidi perché si è coinvolti.
Forse anche per il momento in cui l'ho visto, Gran Torino mi ha fatto pensare al mio paese. Non solo perché Eastwood è il simbolo per eccellenza di uno dei filoni più riusciti del cinema italiano, e non solo perché l'auto che dà il titolo al film è fin dal nome un omaggio alla città che, oltre ad essere il cuore dell'industria, fu la prima capitale.
Mi ci ha fatto pensare, magari confusamente, per diversi motivi, e per mero paragone. Forse perché Walt Kowalski, maschio bianco americano medio con la bandiera fuori di casa e le armi dentro e perfettamente conscio di chi e cosa è, riesce comunque a entrare in contatto con ciò che è diverso e per certi versi opposto (l'altro da sé, direbbero i miei amici più colti), che si tratti di stranieri o di giovani. Nel farlo, è capace di individuarne i punti comuni e quelli non comuni, ma che sono validi, e quindi da far propri. Riesce quindi a ridefinire il sé senza perdere identità, anzi arricchendola.
La capacità di entrare in contatto con l'altro da sé non sembra una delle caratteristiche del mio paese.
Da quel poco che ho studiato, la capacità di farlo deriva dal fatto di avere un'identità solida e definita.
Chissà perché, mi viene in mente quella famosa frase attribuita a Metternich.
Buon centocinquantenario.