Le sentenze si possono criticare eccome.
Il potere, qualunque esso sia, e’ suscettibile di critica, anche serrata, nel rispetto dei ruoli e della buona educazione. La sentenza sul caso di Stefano Cucchi non convince nessuno, neppure i condannati. Un omicidio colposo, secondo i giudici di primo grado, che hanno condannato i medici e assolto gli infermieri (con formula piena) e gli agenti di polizia penitenziaria (per insufficienza di prove).
Non puo’ lasciare indifferenti la storia di un uomo di trent’anni, che viene arrestato per droga e nel giro di qualche giorno, sotto le ‘cure’ dello Stato, finisce sul lettino di un obitorio. Non e’ ‘normale’ morire nelle mani dello Stato. Ma forse ci siamo abituati persino a questo.
Il processo allo Stato si e’ trasformato, sin dalle sue prime battute, in un processo alla vittima, a Stefano Cucchi, a quel ragazzo problematico, alla sua tossicodipendenza. Eppure i segni delle percosse, gli ematomi che la sorella Ilaria volle coraggiosamente mostrare al mondo intero – e chissa’ quanto e’ costato a lei e ai suoi cari diffondere la foto in alto -, di quei lividi oggi e’ marcata la giustizia italiana. Non si tratta di essere colpevolisti, non c’entra niente. Non si chiedono pene esemplari, la giustizia non e’ vendetta. Ma, a quattro anni dai fatti, Stefano Cucchi attende ancora gustizia.
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