[…] La sua sobrietà nella scelta e nella quantità del cibo, che riusciva sempre stupefacente in un uomo della sua mole, era diventata monacale. La mattina mangiava solo un pò di lattuga senza olio e senza pane, la sera una fettina di pane e burro: il caviale era per gli ospiti. Ma stava troppo male per affrontare le lunghe tavolate di invitati che di solito gli piaceva avere, quelle tavolate per le quali Fitzgerald lo aveva definito megalomane; senza capire, stranamente per uno torturato come lui dalla solitudine, che in realtà Hemingway non era megalomane ma disperatamente solo, solo da perdere la testa. La sua solitudine la conosceva soltanto Mary, che gli faceva compagnia sul serio, leggendo e chiacchierando con lui nelle notti di insonnia o nelle albe fredde e sbiadite, quando nel silenzio si sentiva soltanto, a tratti, la macchina da scrivere. […]
(Fernanda Pivano, Mostri degli anni venti, La Tartaruga edizioni)