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Non solo Lampedusa, le storie di miseria della Piana del Sele

Creato il 30 marzo 2011 da David Incamicia @FuoriOndaBlog
Non solo Lampedusa, le storie di miseria della Piana del Sele
di David Incamicia |
Oggi i nostri occhi sono puntati sulla "bomba" Lampedusa, invasa da migliaia di profughi africani dopo che è esplosa la rivoluzione nel Maghreb. Fantasmi la cui esistenza è sovente segnata dalla miseria e dalla dannazione, ristretti in un campo di "accoglienza" che non riesce più a soddisfare le primarie necessità sul piano umano, morale, sanitario. Esseri divenuti loro malgrado il casus belli fra gli abitanti della piccola isola e lo Stato, ritenuto impotente se non addirittura assente; o fra lo stesso Stato italiano e l'Unione Europea, che sta evidentemente lavandosi le mani scaricando sul nostro Paese l'intero peso dell'immane emergenza umanitaria. Eppure le storie di disagio e di abbandono, di paura e di sfruttamento che riguardano gli immigrati sono all'ordine del giorno e non sempre godono dei riflettori dei mezzi di comunicazione.
Come quelle, ad esempio, dei marocchini che fanno il lavoro pesante nell’agricoltura italiana e vengono trattati alla stregua di feccia da intermediari criminali, da connazionali corrotti e dalle autorità locali che vogliono puntualmente liberarsene. Loro sono tragicamente i "benvenuti nell’inferno dell’Italia del Sud", come ci ricorda un'efficace inchiesta realizzata dal settimanale olandese HP/De Tijd, sopperendo appunto alla quasi totale mancanza di informazioni da parte dei mass media italiani.
Il racconto comincia da Aziz, un giovane che se ne stava sulla testa di Garibaldi, a pancia nuda, per dieci ore di fila. A piazza Garibaldi cioè, la più affollata di Napoli, dalle due di notte a mezzogiorno. Quella era la sua protesta perchè da mesi non veniva pagato dal suo capo. Per la disperazione si era messo a vagabondare e alla fine era arrivato a Napoli, dov’è uscito fuori di senno. Minacciava infatti di gettarsi dalla statua. Lui è uno dei tanti marocchini in Italia che sono vicini all'angoscia più assoluta. Lavorano da dieci a quindici ore al giorno per i padroni mafiosi dei campi coltivati a frutta e verdura e abitano in paesi fantasma, in capannoni industriali abbandonati e in mezzo ai rifiuti. Sono gli schiavi di oggi.
La SS18 è una via di scorrimento da Napoli a Reggio Calabria, centinaia di chilometri più a Sud. In estate è percorsa da molti turisti che vanno nella costa del Cilento, nell’elegante località marittima di Amalfi e ai templi di Paestum, famosi in tutto il mondo. E' una strada che attraversa la zona agricola della Piana del Sele, lungo piantagioni di pomodori, campi di carciofi, coltivazioni di finocchi e piante di fragole oltre a chilometri di serre. Qui si è invasi da gente in bicicletta. O per meglio dire, da marocchini in bicicletta. Fanno lo zig-zag con buste di plastica piene di frutta e verdura appese al manubrio e bottiglie d’acqua legate dietro. I camion gli sfrecciano pericolosamente vicino a ottanta all’ora.
Alla pietra miliare 78 c’è un’uscita. Anselmo Botte, esponente della CGIL a Salerno (e come me originario di Barile, piccolo paese lucano del potentino), si immette sulla corsia di destra, in direzione San Nicola Varco. Lì non ci vive nessuno, perlomeno non ufficialmente. Si tratta di un progetto edilizio fallito come ve ne sono a migliaia nell’Italia del Sud. Avrebbe dovuto diventare un punto di raccolta per tutta la frutta e verdura nella Piana del Sele, grazie a stanziamenti per 15 milioni di euro. Negli anni Trenta, l'inera area venne preparata intensivamente per l’agricoltura da Benito Mussolini, che approntò centinaia di chilometri di canali di irrigazione e un groviglio di stradine asfaltate tra i diversi appezzamenti di terreno.
Non solo Lampedusa, le storie di miseria della Piana del SeleAnselmo Botte
All'inizio ci lavoravano italiani del Sud poveri, poi emigrati o capaci di trovare occupazioni migliori. Al loro posto, anno dopo anno, sono arrivati sempre più stranieri e ormai il lavoro viene svolto soprattutto dalle braccia degli immigrati illegali. Del resto, il fenomeno del lavoro nero è esteso a tutta l’Italia e rappresenta quasi il 20% del Pil nazionale ma da nessun’altra parte si riscontra un livello di illegalità così alto come nella Piana del Sele. Secondo le stime, nella zona ci lavorano 5000 marocchini, praticamente tutti illegali, un quinto dei quali vive a San Nicola Varco.
“Benvenuti all’inferno”, dice Botte appena entra nell’area con la sua Fiat Multipla. A San Nicola Varco vi sono capanne di legno, di plastica e di cartoni. Il terreno è disseminato di pneumatici bruciati e buste della spazzatura sventrate e ci sono decine di carcasse di automobili. Botte parcheggia la sua vettura su una collinetta. Piove, e il terreno sabbioso si trasforma lentamente in un grande pantano. Dalle capanne escono uomini dalle facce assonnate, scure e stanche. Fanno un cenno di saluto con la mano a Botte, che conoscono molto bene. Lui ricambia il saluto.
Già da dieci anni Botte si interessa ai destini dei circa mille marocchini illegali che abitano a San Nicola Varco. Nelle sue ore libere si reca nel campo per gestire ogni sorta di questione: trasformare una baracca di legno in una piccola macelleria, accompagnare chi ne ha bisogno a visita dal dentista, fornire un dottore che una volta a settimana passa come volontario con un pulmino. Botte aiuta quei poveracci anche a sporgere denuncia contro i loro capi quando non vengono pagati o vengono maltrattati. Sinora i marocchini lo fanno solo in modo anonimo per paura di ritorsioni fisiche, di perdere il lavoro o di essere segnalati alla polizia. Ma il maggiore impegno di Botte è forse quello per la legalizzazione dei marocchini della Piana del Sele.
Recentemente è stata inasprita la legge per l’immigrazione e d'ora in avanti nel nostro Paese quella illegale è un reato. E un immigrato illegale che viene arrestato sul territorio italiano può essere punito con una multa di 10.000 euro e con l’espulsione. Rispetto a questo Botte conduce una lotta impari. Mentre tenta con estrema prudenza di denunciare i datori di lavoro nero, questi ultimi si recano con la macchina di primo mattino a San Nicola Varco e dintorni per caricare gruppetti di braccianti illegali sui loro camioncini. Per richiamare finalmente l’attenzione che merita questo ghetto, Anselmo Botte ha deciso di scrivere il libro Mannaggia la miseria. Da allora viene regolarmente seguito da figure che fanno parte del sistema corrotto e riceve telefonate di minaccia.
Ed è una miseria per davvero: venti ettari di confusione, su cui vivono quasi mille migranti illegali. Per tutte queste persone c’è a malapena un rubinetto, e nemmeno un gabinetto. Hanno giusto scavato un buco nel terreno. Le docce, installate dalla Regione Campania, ma non hanno funzionato nemmeno per due settimane.  Se non fa troppo freddo, i marocchini si lavano perciò nel canale di irrigazione che scorre lungo il terreno, nella stessa acqua in cui i contadini scaricano i pesticidi chimici. I marocchini alimentano da sé l’elettricità per mezzo di generatori che vanno a benzina e la sera è buio pesto. E’ anche pieno di topi. Il riscaldamento, poi, è garantito dalle tante gomme bruciate. Questo ghetto non si trova in Asia o in Africa - dice il magazine dell'evoluta Olanda - ma nella vostra meta di vacanze preferita: l’Italia. Il Paese che esporta l’oro rosso, il pomodoro, e tanti altri prodotti raccolti da uomini sfruttati come le olive, gli agrumi, le uve o i kiwi.
Non solo Lampedusa, le storie di miseria della Piana del SeleIl libro di Botte
C’è silenzio nell’inferno, a inizio novembre. A prima vista sembra che non ci viva quasi nessuno a San Nicola Varco, tranne un paio di persone che sporgono la testa dalle finestre e qualche cane randagio che abbaia ai visitatori. “Non è un periodo buono, novembre, dicembre. C’è poco lavoro”, dice Botte. Poi, si sente della musica berbera arrivare in lontananza da una grande tenda. Botte apre la tela della tenda e appaiono dei tavolini intorno ai quali sono seduti qualcosa come 300 giovani marocchini. Bevono tè alla menta e giocano a carte. Sono riusciti a rendere l’inferno un po’ più vivibile.
Così c’è un marocchino che fa il barbiere dopo il lavoro nei campi, un altro che fa il macellaio e va a prendere della carne un paio di volte alla settimana nella vicina Battipaglia, che poi rivende a un prezzo di poco più alto. C’è un fruttivendolo, e qualcuno che fa il pane in un forno costruito con le proprie mani. C’è perfino una moschea, gestita da Mohammed che abita da quasi dieci anni a San Nicola Varco. Lui fa i panini con il falafel e frigge le patate nell’olio vecchio. Gli avventori sono seduti su seggioline, trecento delle quali è riuscito a comprare a tre euro l’una. Ha pure due televisori che funzionano grazie a un vecchio generatore di elettricità posizionato dietro la tenda. Sul tetto ci sono due paraboliche: una è sintonizzata su Al Jazeera, l’altra su una soap araba.
Un uomo con le stampelle entra nella tenda. Si chiama Youssef, e ha 25 anni. Si è rotto una gamba, messo sotto da una macchina mentre stava tornando in bicicletta al campo. Youssef dice che lui e tutti gli altri che ora stanno seduti sulle seggiole da giardino sono vittime dello stesso sistema. Tutti caduti nella stessa trappola. Uno scambio di favori tra italiani mafiosi e marocchini che vivono da molto tempo in Italia, i cosiddetti caporali, che a loro volta hanno contatti con i loro prestanomi in Marocco. Tre anni fa Youssef ha deciso di invertire la rotta. Voleva una vita migliore per se stesso, ma soprattutto per i suoi genitori e per sua sorella.
Abitava ancora a Beni Mellal, una città a Sud-Est di Casablanca. Quasi tutti i marocchini a San Nicola Varco vengono da quella regione. Per lo stesso lavoro nel settore agricolo, a Beni Mellal guadagnano più o meno cinque euro al giorno, mentre nella Piana del Sele tra i 15 e i 25 euro. Un giorno Youssef è entrato in contatto con un uomo che poteva aiutarlo a trasferirsi in Italia. Questa persona gli avrebbe messo in ordine il contratto, e Youssef sarebbe riuscito a provvedere alla sua famiglia ogni mese. Si sarebbe provveduto all’accoglienza e il lavoro sarebbe stato garantito. Tutto in bianco, e poteva anche arrivare legalmente in Italia.
Youssef era al corrente delle storie dei tunisini che provavano a raggiungere illegalmente il Sud dell’Europa con viaggi pericolosissimi su barchette traballanti. Ma lui poteva anche arrivare semplicemente con l’aereoplano. Per seimila euro, da pagare in contanti al reclutatore. Così ha spiegato il piano ai suoi genitori e dopo una serie di valutazioni su pro e contro si è deciso di svuotare tutti i salvadanai in casa. Con solo una valigia Youssef ha preso l’aereo, e una mezza giornata dopo stava alla stazione di Salerno. Un datore di lavoro avrebbe dovuto prelevarlo là, uno che aveva sistemato i documenti in modo che Youssef potesse passare il confine in modo legale. Secondo la legge, se non si fosse presentato all’anagrafe con il suo datore di lavoro entro otto giorni, sarebbe diventato illegale. Ma non c’era nessuno ad attenderlo alla stazione di Salerno, e non sarebbe mai arrivato nessuno. Un contratto non l’ha mai avuto in mano Youssef.
Cosicché ha deciso di mettersi a vagare. Non parlava italiano né inglese, ma solo arabo, berbero, e un po’ di francese. Alla fine, grazie al passaparola, è entrato in contatto con altri marocchini. Questi gli hanno detto che avrebbe potuto dormire da loro e che l’avrebbero aiutato a trovare lavoro, in nero, ma che pagava. Lo hanno portato a San Nicola Varco; Youssef ha sistemato un materasso trovato da qualche parte tra gli altri materassi, e nel giro di un paio di giorni aveva il suo primo lavoretto. A prima mattina, lui e i ragazzi con cui dormiva sono stati fatti salire su una vecchia Golf e sono andati a raccogliere i pomodori. Prima che Youssef salisse, il marocchino alla guida ha chiesto a tutti i passeggeri – erano in otto, due sedevano nel portabagagli – di pagare tre euro. Dopo dodici ore di lavoro duro sotto il sole a picco gli hanno dato venti euro, di cui tre da girare all’uomo dell’automobile, al quale ha poi dovuto dare anche un euro per una bottiglia d’acqua da bere durante la raccolta.
Non solo Lampedusa, le storie di miseria della Piana del Sele
La sua vita è così già da tre anni. E’ riuscito a lavorare più o meno 150 giorni all’anno; gli altri giorni aspetta e gira per i campi, alla ricerca di altri datori di lavoro. Ogni settimana telefona a sua madre da un negozio di telefonia a Battipaglia e dice che tutto va bene. Per fortuna lei non può vedere la sua gamba ingessata. Ma all’improvviso cambia tutto. Il ghetto di San Nicola Varco viene spazzato via. Il 12 novembre scorso la stradina laterale della Statale 18 si è trasformata in una via di accesso per decine di pulmini dei celerini, moto della polizia ed auto della Guardia di Finanza. In un batter d’occhio circa duecento agenti hanno accerchiato San Nicola Varco. In tenuta antisommossa e con mascherine bianche sulla bocca e guanti, per la paura di infezioni.
A fine mattinata la polizia aveva arrestato 120 marocchini. Sono stati portati nei centri per illegali a Bari e a Crotone, da cui i marocchini senza permesso di soggiorno sarebbero poi stati espulsi. In circa cinquecento però se l’erano data a gambe la sera prima dell’irruzione. Qualcuno aveva dato la soffiata per tempo. Un paio di giorni dopo l’irruzione, Botte si reca in zona con la sua Multipla e di tanto in tanto fa: “Là ce ne sono seduti un paio, e là, sotto quelle tele bianche in lontananza”. I marocchini che sono riusciti a scampare al controllo della polizia, sono sparsi per tutta la zona. Dormono per strada, sotto una coperta, o nei campi dei loro padroni in nero, tra le piante di pomodoro. E sono sempre in massimo stato d’allerta, pronti a fuggire di nuovo. “San Nicola Varco era un ghetto. Era sporco. Ma paragonato alla situazione attuale era un hotel a cinque stelle. Abitavano insieme. Si offrivano reciprocamente sicurezza, amore fraterno, svago e sostegno. Si davano da mangiare a vicenda, anche se uno magari un giorno non aveva guadagnato”, dice Anselmo. Ora è tutto finito.
A San Nicola Varco può così finalmente iniziare la costruzione dell’Outlet Cilento Village, un progetto di circa 80 milioni di euro. I responsabili del blitz hanno dimenticato di pensare ad una decente accoglienza dopo l’azione di sgombero. E, di nuovo, tocca ad Anselmo Botte risolvere i problemi. Passa dal caseificio di un suo amico e carica sulla Multipla cinquanta confezioni di latte a lunga conservazione. Dopo raggiunge una casa alla periferia di Eboli, che è l’unico spazio di accoglienza messo a disposizione dal Comune per un gruppo di marocchini legali. La casa è una rovina, senza acqua calda. Cinquanta uomini condividono due piccoli spazi doccia, due gabinetti alla turca, un piccolo cucinino e due camere da letto. Fuori i volontari dell’associazione di scout hanno piantato due tende.
Mohamed ha diciannove anni e ha un diploma da saldatore. Ha una carta d’identità italiana e parla fluentemente la nostra lingua. Prima viveva a Bergamo. Lavorava in bianco come saldatore, ma ha perso il lavoro quando la fabbrica è fallita. “Al Nord non sopravvivi manco una settimana senza soldi”, ha sbaraccato a Salerno ed è andato a finire a San Nicola Varco. Tutti i suoi documenti sono in regola. “Dove devo andare ora?” Era un casino, San Nicola Varco, ma era un posto sicuro e avevamo un tetto sulla testa. Ed ora? Ora vado in giro, vagabondo, come uno scemo. Appena ho abbastanza soldi, torno in Marocco. Con vergogna. Con la vergogna di non avercela fatta. Ma tutto è meglio che questo Paese, che tratta come feccia le persone che provvedono a fare il lavoro sporco”. Come dargli torto?
Fonte: www.hpdetijd.nl/

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