Non solo taranta! Riflessioni sul Salento di una volta

Creato il 03 luglio 2013 da Cultura Salentina

3 luglio 2013 di Francesco Danieli

Pasquale Urso: Colori e sapori (olio su tela)

Checché se ne dica, la civiltà contadina del Salento è tramontata per sempre. E non c’è niente da fare! Anche a voler forzare la realtà, insistendo su certi tratti estremi del folklore di Terra d’Otranto – ormai ridotto a taranta e pizzicate – la quotidiana genuinità della vita dei nostri nonni sembra inesorabilmente essere andata a farsi benedire. Nel giro di pochi anni sono cambiate le coordinate esistenziali: il troppo è divenuto nulla, il superfluo indispensabile, l’assoluto relativo.
Lu sule, lu mare, lu ientu, come recita uno slogan assai logorato nell’ultimo decennio, quelli sì che sono rimasti gli stessi. Sono cambiate le persone, gli uomini e le donne che sotto quel sole si cuocevano per garantirsi un minimo di raccolto, giusto per tirare a campare; sono cambiati gli avventurieri che, notte dopo notte, mettevano a repentaglio la propria vita in mare per poter pescare una misera cassa di pesce; sono cambiate le mani che scuotevano al vento il grano sulle aie, perché la dolce forza della natura separasse il frumento dalla pula. Per farla breve, quel motto che oggi è un orpello alla maglietta un tempo era questione di pelle, di vita vissuta.

Jean-François Millet: Angelus

I nostri padri erano più intelligenti di noi… di sicuro avevano guadagnato più ampie vedute rispetto alle nostre. Riuscivano a maturare una sana e disincantata visione della realtà, che mai sfociava in cinismo, camminando con i piedi per terra eppure con lo sguardo all’insù.

E noi – poveri illusi – che riponiamo dietro alla scienza e alla tecnologia ogni nostra speranza di riscatto umano, sociale ed economico! Loro, chissà com’è, riuscivano a portare avanti la baracca senza troppe chiacchiere, magari con quindici bocche da sfamare, mezzo orticello e una capretta.

E proprio questa, la povertà più estrema, forse era la loro ricchezza. Si svegliavano al mattino baciando la terra, ringraziando il buon Dio che aveva donato loro un altro giorno, nuova fatica, nuove emozioni, nuova vita. E tutto sembrava un dono, un magnifico regalo, che pure era costato il sudore della fronte.
Per questo ogni momento della giornata era cadenzato dal dolce ricordo di Gesù Cristo, quel Dio fatto uomo che infondeva loro la speranza di un giorno migliore, già quaggiù e poi nell’eternità; dall’amabile ricorso alla Vergine Santa, madre premurosa che sapeva ottenere il meglio per i suoi devoti figli; dalla compagnia dei Santi, i fratelli maggiori nella fede, testimonianza a portata d’uomo di un dono di grazia soprannaturale che è possibile conquistare semplicemente vivendo.

Queste impressioni si sono addensate nella mia mente durante la stesura del Laudario dei semplici, il volume di quasi 400 pagine di recente pubblicazione (Edizioni Universitarie Romane, Roma 2008), in cui ho voluto raccogliere i più interessanti tra i componimenti popolari religiosi in dialetto salentino. Uno sforzo non indifferente, costato anni e anni di ricerca appassionata, soprattutto di ascolto, che mi ha proiettato in un mondo altro, non ancora contaminato, tantomeno ideologizzato.

La pizzica salentina in una vecchia stampa

La straordinaria avventura di chi per secoli ci ha preceduto rammenta a ciascuno di noi oggi quanto sia fondamentale investire sull’essere piuttosto che sull’avere e come sia indice di saggezza il non affannarsi per il domani, confidando sempre nella Provvidenza oltre che nel lavoro delle proprie braccia.

Giacché, come insegna il Maestro, a chi cerca il Regno dei Cieli e la giustizia di Dio tutto sarà dato in abbondanza (Cf Mt 6, 25-34). Un messaggio di profonda libertà interiore e di autentica serenità che nessun bene materiale, nessuna futile comodità e nessun capriccio umano potranno mai procurare.


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