Non sopporto i radical chic!

Creato il 24 gennaio 2016 da Nino Caliendo

L’espressione “Radical chic” ha più di 40 anni. La coniò nel 1970 il giornalista Tom Wolfe in un articolo divenuto celebre : “ Radical Chic: That party at Lenny’s” (Che festa da Lenny) per ironizzare sull’incongruenza di una raccolta di fondi organizzata da Leonard Bernstein a favore delle Black Panters. L’assurdità del Jet Set bianco, viziato dagli agi che organizzava un party a favore di un movimento socialista rivoluzionario afro-americano. L’incongruenza  della rivoluzione mixata a champagne e paillettes in un tentativo penoso di alleviare il senso di colpa dei privilegiati, dell’elite.

Da  allora “radical chic” è diventata una espressione comune che si usa anche nella moda ad indicare uno stile volutamente trasandato ma, aggiungo io, esageratamente costoso: per esempio, una gonna gipsy –così si dice sulle riviste di moda – indumento che le donne Rom usano quotidianamente, su una passerella di Parigi diventa oggetto del desiderio di milionarie viziate che se incontrassero per strada una rom con una gonna simile alla loro , sarebbero capaci di denunciarla per… plagio.

Avete capito no di chi sto parlando? Di tutti quegli individui stra-ricchi, stra-privilegiati che indossano la kefiah sullo smoking perché rende più etnico il look, sandali di corda, foulard in testa, jeans strappati. Organizzano feste lussuose per raccogliere fondi da destinare alla beneficenza: feste che per organizzarle non basta il bilancio di uno dei Paesi di quel Terzo Mondo di cui loro, i Radical Chic, si riempiono le bocche… quando sono libere dal caviale… ovviamente…  Feste per salvare la foca monaca a cui vanno con sandali rigorosamente di coccodrillo d’estate e pellicce d’ermellino d’inverno.

I Radical Chic fanno le vacanze “spirituali” in India,  negli Hotel a 7 stelle, al ritorno commossi raccontano- magari all’happy hour, sorseggiando coktails variopinti-  dei bambini che gli chiedono soldi per strada… ai quali loro però non hanno sganciato nemmeno un centesimo. Indossano la maglietta di Che Guevara, si definiscono “di sinistra”, espressione che ormai ha senso  più per loro che per gli operai ai quali non gliene frega niente di essere di destra o di sinistra, a loro interessa solo  sfamare i propri figli, farli studiare così un giorno avranno  una vita migliore… sperano.

Non mi piacciono i Radical Chic! Detesto la loro finta compassione, i loro finti atti di carità, il loro continuo proclamarsi  “solidali”. E la loro inerzia, continua, costante. Vivere negli agi è comodo, parlare è facile, mettersi in gioco sul serio è diverso. Sporcarsi con la miseria vera è diverso. Agire è diverso.

Non sono tutti così i ricchi. Tanti fanno del bene ma nessuno lo sa. Quando si fanno veri atti caritatevoli, la mano destra non dovrebbe sapere cosa fa la mano sinistra … e per molti ignoti benefattori è così. Lo fanno in silenzio, senza riflettori puntati o tappeti rossi su cui mettersi in mostra. I Radical Chic no. Loro lo fanno per auto-promuoversi, del senso di colpa di cui parlava Wolf in quel famoso articolo non è rimasto niente.

Non mi piacciono proprio i Radical Chic, i terrorist chic, gli ethnic chic… e poi, chic , lo insegnano i guru dell’eleganza, è semplicità, rigore, minimalismo non becera e grossolana ostentazione, a partire da ciò che indossi fino ad arrivare alla carità.

di annamariarusso2012

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