Non superare le dosi consigliate

Creato il 28 aprile 2011 da Fabry2010

E’ uscito il nuovo libro di Fabrizio Centofanti: Non superare le dosi consigliate, Effatà editrice. Vi offro qui la prefazione di Giuseppe Panella, che mi pare particolarmente azzeccata. a.s.]

DI CERTE COSE CHE SI DICONO MEGLIO IN PROSA
Le “dosi letterarie” di Fabrizio Centofanti
«Ho smesso di investire ma non mi sono spretato: scrivo sempre. Che c’è da fare di diverso? Nulla dies sine linea. E’ la mia abitudine, e poi è il mio mestiere. Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri. Ce n’è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell’uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo ad offrirgli la sua immagine»
(Jean-Paul Sartre, Le parole)

1. Pagine del libro della vita
Quasi ogni giorno, oberato o no che sia di lavoro fisico e mentale, affaticato oppure assonnato, sia che riposi nella calma di una pausa strappata alla sua vita frenetica o sia pur sempre preso dalla fretta dell’esistenza materiale e in preda alle animose necessità della vita quotidiana e della sua opera pastorale, Fabrizio Centofanti trova il tempo di scrivere una pagina di meditazione attenta e sofferta sul mondo e sulle sue vicende liete e/o avverse. Sono dosi brevi ma corpose e spesso aspre di “medicina letteraria”. Sono pagine per la vita e parole in attesa di qualcosa di meglio e di più consolante rispetto alle fragorose e temibili vicende scandite dal tempo dell’oggi.

«Cosa ne sarà di me. Si parlava di chi ci insegnerà, o di chi ci ha insegnato. L’eredità, la tradizione, la consegna di una saggezza, il dono di una chiave per capire, cogliere, apprezzare. Non si vive a caso, vogliamo dirlo? Non si può andare avanti cancellando la sensazione che sto dimenticando qualcosa di essenziale, che sto anestetizzando la sensibilità, ignorando un potenziale di acume, delicatezza, disponibilità a incontrare la realtà, combatterla o abbracciarla, rifiutarla, amarla, bestemmiarla. Chi ci insegnerà a coinvolgerci nell’esistenza, a non risparmiarci, in un dare instancabile e infinito, perché cosa sono questi anni che ci sono stati affidati se non un ricevere e restituire, cos’è questa cosa strana fatta di respiri e tensioni ed estasi e conflitti, questo sangue e questa carne se non un mettersi nelle mani degli altri, rischiando di non prendersi più indietro? Se mi conservo, mi difendo, se rimando a un domani indefinito la mia consegna, cosa ne sarà di me?»

Centofanti non vuole essere un maestro di vita vissuta, un guru come se ne trovano tanti ormai nelle pagine dei libri o sullo “specchio delle vanità” di Internet (taluni pregevoli, talaltri assai meno), un “maître à penser” che si arroghi il diritto di dare agli altri indicazioni precise su che cosa significhi vivere o su come ci si possa “apparecchiare” a morire.

Vuole seminare dubbi piuttosto, preferisce venire a “portare la spada” laddove tutti vorrebbero entusiasmo e unanimismo, “pensiero unico” e forme di acquiescenza assunte come prospettiva di un quieto vivere facile ad accettarsi e a divenire poi conformismo diffuso e confortato di assenso mediatico e/o sociale. Il suo intento è (probabilmente) quello di insinuare il sospetto che non sempre ciò che luccica è fatto dell’oro delle buone intenzioni e che bisogna sempre credere di essere nel torto se si vuole avere qualche volta un po’ di ragione nel “gran teatro del mondo”.

Le storie, gli apologhi e le riflessioni che costituiscono il libro di Centofanti sono frutto della sua volontà di ricostruire una sorta di nuovo archivio della fine della Modernità. Si va dalle opere d’arte e dal loro possibile significato come forme di ricostruzione della soggettività del presente utilizzatei per provare a comprendere gli altri e forse a comprendersi (il ciclo di riflessioni sulle tele di Caravaggio che è larga parte del testo meriteranno comunque una riflessione a parte) ad aneddoti di vita vissuta; si sondano gli abissi della teologia per scavare nella densità delle passioni umane; si cercano i sogni e i desideri delle diverse generazioni che si susseguono e che cercano tutti una risposta alla stessa domanda di sempre: che senso ha la vita? Centofanti non ha risposte ma solo comprensione; non ha alternative ma solo tentativi di analisi, di consolazione e di narrazione di sogni in modo tale da non concedere certezze ma neppure congiungersi al numero degli estensori di sconsolate (quanto scontate e trite) desolazioni di routine tanto facili da raggiungere quanto inutili da suggerire. Il suo modello di scrittura è quello dei “moralisti classici” di quella tradizione culturale che dal Cinquecento di Machiavelli va al Settecento illuminista senza però l’algida letterarietà antifrastica o l’aspro moralismo classicistico che troppo spesso rischia di contraddistinguerla e che la rende sovente lontana dall’umanità del lettore non avvertito.

«Utopia. Siamo nel migliore dei mondi possibili: la popolazione ha trovato un modus vivendi decoroso, con un’equa distribuzione delle risorse alimentari, un’ottima organizzazione sanitaria, fonti energetiche perfettamente compatibili con l’ecosistema; in politica vige una democrazia equilibrata con cambi di governo regolari, nel rispetto dell’alternanza fra gruppi conservatori e progressisti; gli stipendi dei parlamentari sono omologati a quelli dei dirigenti delle aziende statali, senza privilegi o facilitazioni; le religioni coltivano un dialogo accomodante e costruttivo, favorendo la crescita spirituale dei fedeli; la cultura è promossa da un’alfabetizzazione che investe le popolazioni e le categorie più refrattarie; l’economia è depurata da ogni genere di sfruttamento iniquo, non esistono fabbriche impiantate all’estero con retribuzioni minime e divieto di assistenza sindacale. Il sole sorge soddisfatto su un pianeta che non dà più segni di conflitto o di dissenso grave. Mi sveglio alle sei del mattino, adeguatamente riposato: no, non è un sogno, è il migliore dei mondi possibili che si offre anche oggi con proposte confortevoli. Mi lavo, faccio colazione, scendo in strada e mi blocco davanti all’automobile acquistata di recente con i punti qualità. Cosa mi succede? Mi tocco con la mano destra dietro il collo: ah! Ricordo con sollievo che è sufficiente una ricarica della batteria per risolvere il problema».

Dell’ironia un po’ troppo alla moda? Un sarcasmo facile che come tale risulterebbe un po’ troppo fasullo? No – solo un tentativo di vedere le cose sotto un’altra luce che non sia quello del dolore e del fallimento con la speranza che forse qualcosa cambi (non tutto ovviamente, come avveniva nelle teorizzazioni più spinte degli utopisti del passato); basterebbe cambiasse lo sguardo di chi si affaccia alle possibili tentazioni della vita e vuole viverle con il coraggio di pensare qualcosa di diverso e non banale, di credere che il mondo possa cambiare e non tutto sempre in peggio.

2. Caravaggio come progetto di lettura del mondo

Non banale e niente affatto scontato è l’approccio di Centofanti alla pittura caravaggesca. La pretesa non è quella della critica d’arte naturalmente ma anche in questo caso è mobilitato il potere di uno sguardo capace di leggere nei particolari di un’opera il senso di una visione più generale del mondo. Caravaggio viene adottato come l’artista più adeguato a esprimere il senso e la necessità dei cambiamenti multipli presenti nella vita di ognuno. Dal San Matteo per giungere al suo Martirio, dalla Conversione di San Paolo alla Maddalena penitente o all’ Amor vincit omnia, tutte espressioni di una comune fede nella forza dell’espressione assoluta della luce senza infingimenti ipocriti o divagazioni inutilmente emollienti. L’Amore (sacro o profano) è tutto uguale e in ognuno dei suoi aspetti merita quel rispetto che nasce dalla sua dimensione di esuberanza, di prepotenza vitale che è poi il segno della sua sincerità. Nel caso di Amor omnia vincit (il quadro a olio conservato allo Staatliche Museum di Berlino e conseguente al celebre abbandono lirico di Virgilio nelle Bucoliche) che viene di seguito esaminato da Centofanti lo si vede con chiarezza:

«La vertigine della libertà. Non finisce di stupirci, Caravaggio. Questo Amore, a detta di qualcuno, sarebbe il suo amante, Cecco o Checco Boneri, il garzone discepolo che, secondo una consuetudine dei tempi, viveva col maestro. Lo dimostrerebbe l’ostentata nudità, la posa a gambe larghe, la provocazione eloquente che la tela comunica al lettore. C’è chi afferma il contrario, ricordando che la stessa posa, nell’amato Buonarroti, significava vittoria e trionfo, se non resurrezione. L’amore è sempre ambivalente, reca le tracce di una struttura tripartita – eros, philia, agape – corrispondente al microcosmo umano – corpo, anima e spirito – sempre sulla soglia di un abisso, esposto come pelle nuda alla vertigine della libertà, alla scelta che può farne la meraviglia del creato, il cuore dell’evoluzione universale, o il baratro della depravazione senza ritorno, torpore senza più risveglio».

Se Caravaggio è pittore della libertà d’espressione (come la sua vita stessa e l’opera poi dimostrano), per Centofanti, questa libertà si sintetizza nella scelta dell’amore come prospettiva di conoscenza. Nell’agape la ricerca comune si trasforma in acquisizione comunicata e altrettanto urgente di modelli di vita e di forme di esistenza necessariamente condivise. Nella Maddalena penitente del 1594-1595 (e conservato nella Galleria Doria Pamphilij di Roma), l’amore terreno e fors’anche mercenario si trasforma in riflessione sulla vita e sulla dimensione più arcana di essa. Per Centofanti, la visione della donna raccolta in meditazione, pronta a essere redenta dal gesto che ha appena compiuto, è il simbolo di un rapporto più genuino con Dio di quanto potrebbero esibire i gesti plateali e falsificanti di tanti neo-convertiti del passato (e anche del presente).

Maddalena medita sui propri peccati e sul suo mestiere che decide di abbandonare – Caravaggio ne mette in evidenza la profonda spiritualità. Lo stesso accade, nell’ottica dello scrittore romano, anche in tanti luoghi lontani dal centro del Potere, “in qualche parrocchia sgangherata dell’estrema periferia della città”, dove lo spirito e la carne non sono affatto antitetichi ma congruiscono in una sorta di esaltazione tacita e poco rilevata (ma assai rilevante!) di ciò che è umano.

Anche nel San Girolamo (quello conservato nella Galleria Borghese di Roma), ben diverso da quello esposto ai turisti (ma mai di domenica) nella St.John Co-Cathedral di La Valletta a Malta, la tensione legata all’esplorazione del baratro del Divino è tutta riconducibile alla scrittura, alla penna e alla sua pena, alla necessità di scrivere sempre e comunque per continuare il viaggio verso la conoscenza della parola e della volontà superiore di ciò che è trascendente. Nell’altro, dove il santo reca la maschera di Alof de Wignacourt, Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, la penna è molto più rilassata, la pena è meno forte, la tensione riconducibile allo studio e non al rapporto privilegiato con l’ardore della presenza divina. Nel quadro conservato a Roma, la penna d’oca è il punto di focalizzazione dell’azione del santo e, tramite lui, di tutti coloro i quali vogliono porsi in contatto con gli altri uomini mediandone il tragitto verso l’illuminazione di una conoscenza condivisa. San Girolamo sintetizza l’ambizione dello scrittore convinto di compiere un percorso che lo condurrà verso qualcosa di nuovo e di convincentemente vero. In questo atteggiamento si può rintracciare quello stesso che anima l’intrapresa di Centofanti: la scrittura è un mezzo per parlare agli altri, per cercare di capire ma, nello stesso tempo, per esporsi e far trapelare in maniera più o meno incisiva qualcosa di sé. I santi si concedono a un rapporto privilegiato con Dio; gli uomini che scrivono in certa misura mimano quello stesso rapporto ma si pongono in maniera meno verticale nella relazione che auspicano. Lo scrittore sfida il Tempo perché vive il suo di tempo e non può rinnegarlo costi quel che costi; chi lo fa si condanna a morire nell’abisso di un eterno fatto di cartapesta e di vuote illusioni di gloria.

3. Scrivere e poi dimenticare

Da ciò si può dedurre facilmente quanto continuare a scrivere incessantemente sia fondamentale per don Fabrizio (Centofanti). Scrivere consente di vedere, di sognare, di ritrovarsi, di accendere le luci di un desiderio che è fatto di comunicazione e di comprensione. Scrivere vuol dire riuscire a rendere tangibile ciò che si è fatto della propria vita e dargli un senso che sia un po’ meno limitato di quanto spesso si crede che sia stato. Ma, nello stesso tempo, scrivere è il mezzo migliore per dare per concluse le esperienze che diventano così più vere, più autentiche, degne di essere ricordate da tutti e non solo da parte di chi le ha vissute. Affidate al mondo dei lettori, potranno essere dimenticate come angoscia personale del singolo e diventare memento e sanzione per la coscienza di tutti. E’ il caso del barbone Aldo, morto e dimenticato e rinato attraverso la scrittura di Centofanti:

«Altro a cui pensare. Aldo è morto. Voi direte: e chissenefrega. Era un barbone. Bisognava sudare sette camicie per farlo lavare e non ci si riusciva quasi mai. Beveva, gridava, litigava. Oltretutto, se n’è andato nella settimana santa, che per noi preti è un massacro senza pari. Ci mancava lui, in questo caos. Puzzava, Aldo; ultimamente, era coperto di pidocchi e pulci, per cui alcuni avevano timore di accostarlo. All’obitorio ho pregato imponendogli la mano: lo Spirito Santo non teme malattie dermatologiche, C’erano altri due cadaveri, avvolti in lenzuoli stropicciati e impregnati di macchie. SE la fine è questa, mi chiedo che senso abbia la nostra corsa senza tregua: se l’affanno infinito, dico, approda a un obitorio sporco e gelido, squallido di pulci e di pidocchi, ma chi ce lo fa fare? Ho sussurrato ad Aldo di non aver paura: don Mario sarebbe venuto a prenderlo, con la veste bianca. Gli ultimi giorni, quando il male lo stava consumando, il sacerdote li ha passati correndo dietro al suo barbone: un affanno finito qui, nell’obitorio gelido. Ma la cura tenace ha trasformato questo inferno in u sepolcro nuovo, un giardino fuori del tempo. Un uomo dalle vesti bianche accoglie i parrocchiani che piangono Aldo, alcolista e puzzolente, e annuncia loro: perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto. Le pulci e i pidocchi non capiscono: loro hanno altro a cui pensare».

L’uomo con il vestito bianco, simbolo della testimonianza di fede e del martirio che ne consegue, è, tuttavia, qui anche qualcos’altro: è il simbolo del rinnovamento imminente e atteso, della necessità di vivere in modo diverso, più puro, più conseguente, il tempo del proprio passaggio in terra.

Ma questa esigenza spirituale e sofferta non si incarna soltanto nei corpi (come quello miserevole e glorioso dell’ultimo destinato a diventare il primo) ma nelle parole che lo dicono chiamandolo a testimoniare per chi le scrive.

Per questo motivo, il senso della scrittura mossa, spesso baroccamente atteggiata nel rincorrersi delle sue frasi filate come da un fuso d’antica fattura, sempre attenta e precisa ai nessi e agli snodi dei segni che la attraversano, si rovescia per Centofanti nel progetto di un mondo migliore e nell’attesa (scettica e fervente insieme) di esso. In questo modo, il suo desiderio di vivere senza timore la sua vocazione si salda alla sua volontà di durare e di dichiarare la sua aspirazione a un “mondo nuovo” che vorrebbe e che non trova se non nelle pagine di un “libro a venire”. Scrivere quel libro significa, almeno per un momento, pensare a una terra senza il male in cui i barboni risorgeranno vestiti del candido manto dei testimoni della fede e la vita troverà di nuovo il senso che ha perduto. Scrivere la verità, dimenticare il dolore, sognare forse …



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