Giusto una settimana fa il ministro Fornero riguardo alla cittadinanza agli stranieri affermò che il governo avrebbe mantenuto lo ius sanguinis come requisito. In poche parole per essere cittadino italiano bisogna avere genitori italiani. Per gli stranieri nati quaggiù, l’iter è che si diventa italiani, su richiesta dell’interessato, raggiunta la maggiore età. L’Italia però in questi anni non ha applicato la normativa per una minoranza residente storicamente nell’Est Europa: gli italiani di Crimea.
Tra il 1853 e il 1856 il Regno sabaudo partecipò in questa regione, con un corpo di spedizione di 18.000 uomini, nella coalizione composta da Regno Unito, Francia e Impero Turco contro la Russia. La partecipazione fu volontà di Cavour per far valere gli interessi piemontesi tra le potenze continentali. La fine del conflitto fu un duro colpo per la demografia della zona e gli Zar cercarono di ripopolare tramite colonie, non solo russe, ma invitando anche le fasce sociali più povere degli altri paesi d’Europa allettandole con le molte terre vergini da coltivare. Dal 1870, nella neonata provincia di Katerynoslav, cominciò un doppio flusso migratorio italiano: il primo da Liguria e Toscana e il secondo di contadini del Sud Italia, soprattutto pugliesi, andando ad occupare l’estremità orientale della penisola in cui la cittadina principale era Kerc.
La salita di Mussolini in Italia creò ulteriori problemi, generati dai connazionali fuggiti dalla repressione fascista, che una volta scoperta questa comunità, vi si recarono per osservarla, chiudendo l’unica chiesa cattolica, avviando tra il 1933 e il 1937 deportazioni e fucilazioni sul posto con l’accusa di essere spie del governo fascista. Lo scoppiò della guerra accelerò la crisi tra le autorità sovietiche e i figli dei primi migranti. Dopo l’occupazione nazista nel Novembre 1941, l’armata rossa, il Gennaio successivo, tornò temporaneamente in città e tutti gli italiani furono accusati di essere stati collaborazionisti dell’invasore. Una mattina i commissari si presentarono alle diverse famiglie dicendo di prepararsi la valigia per stare via tre giorni, in verità da lì sarebbe iniziato il loro calvario. Stalin ordinò il loro trasferimento in Kazakhistan, prima via mare, e da Baku tramite cargo animali, dove furono lasciati al loro destino colpevoli di essere della stessa “etnia” del nemico. I più “fortunati”, specialmente bambini e anziani, trovarono la morte durante il viaggio, la maggioranza trovò la fine nella detenzione. Il terrore fu così elevato che tutti persero l’abitudine a parlare italiano, ma nel 1952, con la destalinizzazione, Kruscev permise il rientro della comunità, ormai ridotta a poco più di trecento unità, senza riottenere le proprietà sequestrate. Iniziarono nuove emigrazioni verso la terra degli avi e nel censimento del 1989, la popolazione era stimata in 316 persone.