Si è iniziato parlando di altro – ossia di ricette a base di coniglio – ma siamo finiti, almeno in parte, a fare una digressione sui nostri nonni.
Che poi io a mio nonno materno volevo dedicare un post già mesi fa. L'avevo anche scritto, poi mi sembrava troppo melenso e l'ho messo da parte. Ora è giunto il tempo di tornarci su, anche perché ho notato che altri condivido lo stesso orgoglio – non stupidamente patriottico – per quella generazione di anziani che a suo tempo si trovò a combattere la più maledetta delle guerre intraprese da noi italiani.
Era il 1936 quando mio nonno Luigi, caporale di non ricordo quale Divisione, assegnato al Ruolo Sussistenza, fu spedito in Etiopia per “pacificare” la nuova colonia fresca fresca di conquista. La resistenza etiope, composta da guerriglieri fedeli al deposto imperatore Haile Selassie, non demordeva nonostante la feroce e disumana repressione messa in atto dal generale Rodolfo Graziani. Un capitolo tristissimo della nostra storia, che solo negli ultimi vent'anni è stato esaminato senza inutili riserve, grazie al lavoro di Angelo Del Boca.
Probabilmente di queste cose mio nonno non sapeva nulla, non quando fu imbarcato e mandato in un paese lontano e sconosciuto. Lui era un apprendista salumiere, nato in provincia di Milano, con una fidanzata, un futuro da costruire, mentre in tutta Europa soffiavano venti carichi di tempesta.
Posso immaginare che per un ragazzo che nel '36 aveva all'incirca 25 anni la prospettiva di combattere in Etiopia fosse più o meno come quella di volare su Marte.
In Africa ci rimase tre anni e mezzo, mica pochi giorni. Tornò in patria quando l'Italia stava per entrare in guerra. Quella grossa. Si sposò, rischiò di essere spedito in Russia. Al contempo due fratelli di sua moglie (ossia mia nonna) furono mandati a “spezzare le reni alla Grecia”. Uno finì prigioniero e così rimase fino al '45.
Da ragazzino adoravo ascoltare i racconti di guerra di mio nonno. Non ne coglievo i risvolti drammatici, bensì solo quelli avventurosi. Non a caso leggevo Salgari e SuperEroica.
Essendo nella Sussistenza, mio nonno ebbe la fortuna di non sparare mai un colpo, tuttavia mi raccontava sposso di quella volta che, insieme a un amico, fu costretto a mettere in fuga a colpi di baionette dei predoni abissini. Complice una serata di bisboccia, i due commilitoni si erano persi lontano dal loro campo base, incrociando la strada con un paio di banditi locali. Si trattava del periodo in cui, se non ricordo male, la sua Compagnia fu dislocata dalle parti del Debra Behan, dove si concentravano grosse sacche di resistenza etiope.
Dell'esperienza africana il nonno portò a casa molte foto che lo rappresentavano con indigeni, indigene, scimmiette e ascari eritrei. Portò con sé anche molte storie, amicizie nate in quella terra lontana e durate fino al '96, anno della sua morte.
Quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale il nonno fu destinato alla Sussistenza nel QG di Milano. Dopo l'armistizio si tolse il grigioverde per dedicarsi alla famiglia. Aiutò i partigiani nel modo a lui più congeniale: fornendo loro cibo preso dal negozio a cui lavorava. Quando i fascisti del mio paese lo scoprirono tentarono di fargli passare la voglia di aiutare “quelli là”: lo picchiarono fino a spaccargli il timpano destro, che da allora rimase per sempre quasi totalmente sordo.
Per fortuna la guerra per lui finì bene, nel senso che sopravvisse, a differenza di tantissimi italiani di questa o di quella parte che persero la vita, magari molto lontano da casa. Mise al mondo due figli e visse, finalmente felice, fino al 1996.
A voler guardare le cose da una certa prospettiva si è perso un nuovo declino del Paese che tanto aveva servito. Poco importa se quella fu la guerra del Duce. Credo che prima del '39 fossero ben pochi i giovani italiani in grado di comprendere la reale situazione politica in cui versava lo Stivale. È facile ragionare col senno di poi, con la freddezza dello storico. È invece più complicato quando le cose si vivono di persona, quando ti cacciano in mano un Carcano, uno zaino e un paio di stivali di cartone e ti dicono che devi andare in Etiopia a “ricostruire l'Impero”.
Lacrime e sangue per far tornare l'Italia al suo splendore. Un momento, un momento! Questa l'ho già sentita da qualche parte...