NonSoloNoir saluta Pinetop Perkins

Da Fabriziofb


Si è spento in seguito a un attacco di cuore che lo ha colto ieri mattina nella sua casa di Austin, Texas, il novantasettenne pianista americano Pinetop Perkins.

Nato Joe Willie Perkins a Belzoni, Mississippi, nel 1913, Perkins ha esordito come chitarrista negli anni ’20, battendo gli honky-tonks e accettando ingaggi per feste private e occasioni varie.
Negli anni ’30 si aggira, randagio, nell’area del Delta, la chitarra in spalla e la sigaretta perennemente all’angolo della bocca.
All’inizio dei ’40, una ferita di arma da taglio -imprevedibile esito di un alterco con una corista- gli lesiona irreversibilmente i tendini del braccio sinistro: ormai incapace di suonare la chitarra, Perkins si trova costretto a “ripiegare” sul pianoforte.
A metà dei ’40 è in Arkansas e lavora con Sonny Boy Williamson II (Aleck Miller) e Robert Nighthawk per l’emittente radiofonica KFFA.
A questo periodo risale il soprannome “Pinetop”, che allude al grande Clarence “Pinetop” Smith, leggendario pianista blues morto alla tenera età di ventiquattro anni per via di un colpo d’arma da fuoco e entrato nella storia del blues -a dispetto degli appena nove anni di attività- in virtù del suo stile innovativo.
Proprio un pezzo di Pinetop Smith, Pinetop’s Boogie Woogie, registrato a Memphis, negli studi della Sun di Sam Phillips, nel 1953, nel corso di una breve pausa dal lungo vagabondaggio a fianco del chitarrista Earl Hooker, contribuisce a costruire la reputazione pianistica di Perkins, che pure, tra la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60 si stabilisce in Illinois e abbandona la musica. Torna in pista solo nel 1968, convinto dall’insistenza el vecchio compare Hooker: ma non ha perso il tocco, e probabilmente la fama non conta molto nell’ambiente. Nel 1969 si mette in mostra nel corso di una jam grazie al suo stile aggressivo, e Muddy Waters, orfano di Otis Spann, lo arruola nella sua band.
Brillante pianista, relegato (forse volontariamente?) in ruoli da comprimario, il pianista non raggiunge la notorietà presso il grande pubblico fino ai tardi anni ’80: nell’88 esce infatti After Hours, primo album a suo nome, nel quale Perkins si produce in una manciata di eleganti rivisitazioni di brani classici dei compari di un tempo, da Muddy Waters a Robert Nighthawk, ormai quasi tutti scomparsi.
Il periodo più produttivo ha inizio negli anni ’90: dal 1992 al 2010, il pianista registra una quindicina di album e un pugno di ottimi live.
Tanto per dimostrare che non ha nessuna intenzione di mollare, l’ormai novantenne Perkins mantiene ritmi forsennati: si trasferisce in Texas e riprende a suonare dal vivo almeno un paio di sere a settimana.
Nel 2004 sopravvive -uscendone sostanzialmente illeso- a un terribile incidente nel quale la sua automobile viene letteralmente distrutta da un treno.
Tra il 2005 e il 2011 riceve tre Grammy: uno alla carriera, e due come vincitore della categoria Best Traditional Blues Album (2008 Last of the Great Mississippi Delta Bluesmen: Live In Dallas -con Henry James Townsend- e 2011, Joined at the Hip con Willie “Big Eyes” Smith).
Con lui se ne va non solo un grandissimo pianista, ma anche uno degli ultimi rappresentanti della vecchia leva del blues americano, e se è vero -come dice Allan Lomax- che il blues non è un modo di fare, ma un modo di vivere, c’è il rischio che, a forza di colpi simili, sia il blues stesso ad andarsene…


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