Ciò che sicuramente fa parte del fascino di quest’opera è l’attore che interpreta il Conte Orlok, Max Schreck: il suo nome, tradotto dal tedesco, suona come «Massimo Terrore», e pare che si sia calato talmente tanto nei panni del vampiro da non poterli più smettere, interpretando per il resto della sua carriera solo ruoli del genere. A ciò si aggiunga l’ipotesi, non ancora scientificamente screditata, del regista americano Edmund Elias Merhige, il quale nel 2000 dirige L’ombra del vampiro (Shadow of the Vampire). Ricreando la messa in scena del film Nosferatu, ipotizza che Murnau (interpretato da John Malkovich) abbia utilizzato, invece dell’attore Max Schreck, il reale vampiro Nosferatu (interpretato da Willem Dafoe). La domanda di fondo resta. Estreme conseguenze del metodo Stanislavskij o realtà senza trucchi? Talvolta la maledizione di una pellicola è data dalla sua censura. Uno dei casi più eclatanti è rappresentato dall’ormai leggendario Freaks (1932) di Tod Browning. Questo lungometraggio fu finanziato dalla MGM – Irving Thalberg, uno dei produttori, lo “sponsorizzava” dicendo che avrebbe dovuto essere il film più orribile di tutti – per poi essere rinnegato dalla stessa dopo pochi mesi dall’uscita nelle sale cinematografiche perché provocava troppo scandalo. Per trent’anni è stato proibito in Inghilterra, uno dei paesi più storicamente tolleranti; Browning, dopo Freaks ha praticamente perso la sua carriera di regista, girando, fino al momento del suo ritiro dalle scene, avvenuto nel 1942, soltanto altre quattro opere, la più importante delle quali è La bambola del diavolo (1936).
Le copie di Freaks che possono trovarsi in giro hanno una durata di sessantaquattro minuti, mentre l’originale, ne aveva circa novanta. È un «Inno alla mostruosità innocente contro la normalità colpevole», ma per chi ha visto il film, anche senza i 30 minuti eliminati che pare contenessero scene particolarmente cruente, la “mostruosità innocente” non è poi così innocente mentre la “normalità colpevole” non è poi così normale. È più un inno alla legge del taglione, cattiveria per cattiveria uguale cattiveria al quadrato; e… nonostante questo piccolo inserto matematico, ho potuto vederlo senza sentire l’esigenza di cadere «come corpo morto cade». Altro grande lungometraggio maledetto, più vicino ai nostri tempi è Il corvo (The Crow, 1994), del regista egiziano Alex Proyas. Brandon Lee, l’attore che interpreta Eric Draven, ha l’occasione di allontanarsi dalle orme dell’ingombrante figura paterna; quello che non sa è che questo lavoro lo legherà in maniera indissolubile al padre. A pochi giorni dalla fine delle riprese del film, il 31 marzo 1993, accadde l’imprevisto, l’insinuarsi del vero all’interno della finzione: un proiettile.
Nella finzione l’insensato bandito detto “Funboy” avrebbe sparato e ucciso il chitarrista Eric Draven; quel giorno accadde invece che l’attore Michael Massee sparò e uccise Brandon Lee. Non ci furono colpe. Fu soltanto un incidente. La pistola, caricata a salve, per una fatalità – un colpo inesploso del giorno prima e rimasto incastrato all’interno dell’arma – spara per davvero ed uccide il ventottenne Lee. Eppure, suppongo, per tutti coloro che conoscono questa storia, la sua morte non può essere considerata semplicemente una “morte bianca”. Già suo padre Bruce era deceduto sul set di un film a causa di un edema cerebrale. Brandon Lee diventa come della stessa sostanza di Eric Draven, e da morto, attraverso l’uso di sofisticate ricostruzioni computerizzate, finisce la sua pellicola. Forse la vera maledizione de Il corvo è stata quella di avere un sèguito. Si sarebbe dovuto lasciare quest’opera, simile ad una perla nera, solitaria e unica, così come lo è nella realtà.