Era una pellicola che si metteva dentro le fotocamere, capisco che oggi aprirne una sia considerato strano, e dalla quale si ottenevano immagini finite, cioè già con i colori giusti e con i toni corretti. Era un'epoca felice nella quale il fotografo non doveva fare nient'altro che prendere sul campo una buona fotografia esposimetricamente perfetta. Sì, perché anche solo un errore di mezzo stop poteva rendere troppo chiara o troppo scura l'immagine. Non c'era modo di rimediare dopo. La "postproduzione" non esisteva. Qualcosina si poteva fare stampando in Cibachrome o facendo le scansioni per la stampa offset, ma se la dia era sbagliata i laboratori ti dicevano che la colpa era tua, e, se potevi, dovevi rifarla. Nella professione nessuno si sognava di usare le negative a colori perché chissà che colori avevano. Al limite si facevano delle stampe e solo da lì delle scansioni, ma era più lento, costoso, e quindi malvisto.
Poi arrivò il digitale e siamo all'oggi.
La notizia del momento è che l'Agenzia Reuters ha appena definito una nuova linea di condotta per i suoi fotogiornalisti: basta RAW, solo JPG grazie. Sì, ufficialmente viene scritto che si deve all'immediatezza di trasmissione del JPG. In realtà, lo so, lo sento, c'è tanta, ma proprio tanta, nostalgia delle diapositive.