(not so) far east (ii)

Creato il 21 giugno 2014 da Veripaccheri


"Oh, oh-oh,
life can be cruel.
Life in Tokio"
- Japan -
- II -

Diventa non così improbabile, allora, stabilire una continuità nella pluralità di toni, di atmosfere, di suggestioni, che e' innanzitutto uno sguardo sull'individuo, sulle forze che ne condizionano lo stare al mondo, nei modi di un tentativo teso a leggere il più lucidamente possibile le frizioni esistenti fra i retaggi culturali di un'antica compostezza, di un "ordine" a cui non e' estranea la dimensione spirituale dell'"armonia" (anche morale, sentimentale, psicologica) - solidissimo mastice di una conservazione fondata su rigide compartimentazioni sociali e su secolari equilibri di potere - e il furore schizofrenico, l'accelerazione parossistica imposta dalla tutt'altro che morbida dittatura della tecnologia, del denaro, delle merci, la quale, per sua stessa natura e inerzia, recalcitra ad ogni "ordine" che non sia funzionale al proprio auto-potenziamento; rifiuta ogni gerarchia stabilita, ogni potere organizzato, che non preveda una sua voce in capitolo: disperde e riassembla ogni struttura collettiva - quasi per riflesso condizionato, al punto in cui siamo, pianificata e realizzata a partire dalle sue prerogative -. Ragioni, queste, che hanno una loro importanza al momento di tratteggiare le forme mentis, di definire le personalità dei tipi umani da rappresentare. Emerge, in tale prospettiva e in particolare - e valga come notazione di carattere generale - una figura femminile complessa, scrigno di tutta una serie di sfumature, alcune prevedibili, sul crinale di un folklore consolatorio (e d'immediata resa, soprattutto in Occidente) - pazienza, remissività, stoicismo troppo spesso in mesta rima con masochismo, a fare da substrato ad una semplicistica frivolezza condita d'ignoranza e superficialità ed espressa secondo la gamma limitata di una compiaciuta petulanza ciarliera - altre, al contrario, sorprendenti e modernissime - la proverbiale sensualità elusiva, l'avvenenza "letale" di visi e corpi filiformi, come pure la forza di una saggezza, di una perseveranza e, non di rado, di una crudeltà, ancestrale, quelle e questa sempre più spesso scientemente esibite e utilizzate non solo e non tanto nell'ambito "privato" dell'attrazione o del quotidiano più prosaico, quanto in quello "sociale", più torbido, del potere, degl'interessi, della "manipolazione"; come anche nell'altro, "intimo", più misterioso e oscuro, della violenza, dell'umiliazione, quand'anche della ratificazione dell'inamovibilità di certi sistemi di regole (interpersonali, familiari, di clan), in una sorta di insinuante "neo-matriarcato" sospeso tra passato e futuro ma ben vivo e operante -. Intorno, vicino, sovente in contrasto con un universo muliebre così sfaccettato, sta l'uomo, nei territori di un'eredita' nei suoi tratti più profondi all'apparenza ancora inscalfibile (con le dovute eccezioni riconducibili ad inquietudini ed "ossessioni" registiche più o meno accentuate), per cui egli sembra essersi limitato ad un travaso meccanico della semi-leggendaria inclinazione marzial-guerresca per la supremazia e l'onore nella lotta senza pietà per il denaro e lo 'status' che la sua disponibilità implica, restando in tal modo maggiormente vincolato ai destini di individualità per certi versi "condannate" ad una reiterazione che la realtà febbrile e veloce di oggi, oltre a spogliare di qualunque residuo di nobiltà e autorevolezza ha anche privato - e sembra un esito definitivo - di margini di rinnovamento, come anche di una pedissequa riproposizione in chiave tradizionale: prese inservibili, in ogni caso, per un ancoraggio solido al flusso "inarrestabile" degli eventi, ovvero a quella singolare creatura che e' il mondo-della-tecnica-e-del-denaro i cui appigli sono, come e' noto, di fondo, contraddittori (se non, persino, non contemplati, perché teorizzati in partenza come pletorici); comunque in metamorfosi continua. Di fatto, aleatori.

Alla luce di ciò, risulta più agevole comprendere - pur essendo solo un riferimento fra tanti, anche se significativo - il possibile specchiarsi di due opere diversissime tra loro eppure come "orfane" l'una dell'altra in questa inesausta "compresenza" - fatta di richiami, di allusioni, di ricorrenze di luoghi, epoche e volti - di arcaico e futuribile, di destini sempre in bilico e pervicacia a rimanere e a contare di radici millenarie; di fughe (più o meno) possibili nelle pieghe senza limiti del desiderio e i tributi inauditi ingiunti dalla ferocia del "qui e ora". "Ashes of time" di Wong Kar-way, da un lato (lavoro del 1994, giustamente proposto in originale con sottotitoli nella versione 'redux' curata dallo stesso regista), disperato scavo, tra le crepe di una sfolgorante scorza "wuxia", nella desolazione e nei labirinti di una passione tanto vagheggiata e sofferta quanto sterile o, semplicemente, fuori portata; impreziosito da linee tanto essenziali e colori (da intendersi anche come prisma emotivo) tanto vividi quanto e' distante il tempo interiore che lungo le prime si muove e i secondi desidera, smarrisce e rimpiange, fino a ridurre, appunto, la sua consistenza a cenere/"ash", ossia ad una specie d'immaterialità affine al sogno ma per sempre malinconicamente inappagata. E dall'altro, "The Yellow Sea" di Na Hong-jin, datato 2010, epopea al contrario, tetra e derelitta, di un uomo travolto - nel corpo grigio di agglomerati urbani da distopia realizzata anzitempo - da avidità e dissipazione, figlie minori, forse, ma più che legittime, oltreché gemelle, di un mondo per cui la morsa (nello specifico) dei debiti non e' che un altro anello nella catena anestetizzata del disgusto e dell'abiezione: cronistoria di un "animale" braccato da una dimensione talmente materiale dell'esistenza da invocare quasi la necessita' dell'orrore, del sangue, spazzando via, di contro, la stessa idea di una tregua - amore, sogno, illusione, in fondo questo sono - lo spazio di un rifiato, di una scelta che, meramente, non può darsi all'interno di qualcosa che e' un "mare giallo", luogo fisico, spettatore imperturbabile e, in egual misura, palese metafora "biliare" di biografie-di-risulta una volta passate al tritatutto dello "sviluppo". Analogie simili parimenti si rintracciano in altre pellicole - diverse per ambientazione, linguaggio e caratura - ad alimentare l'impressione di una variegata persistenza (di soggetti, di snodi, di vie d'uscita come di trappole a tenuta stagna), imperfetta ma caparbia, tale cioè da travalicare comunque i confini dei singoli paesi per comporre uno spaccato tanto eterogeneo quanto rappresentativo della vicenda umana negli "strani giorni" di un'immane e, con ogni probabilità, decisiva transizione: la nostra, quella di uomini e donne del ventunesimo secolo.
Ecco, quindi - l'asistematicita' dell'elencazione e' voluta - "Secret reunion" (2010), di Hun Jang, singolare "buddy movie" (interpretato, tra gli altri, da Song Kang-ho, attore prediletto di Park Chan-wook), sullo sfondo di diffidenze e avvicinamenti al cui apice si trovano una spia "dormiente" e un agente dei servizi segreti caduto in disgrazia, al di qua e al di la' del 37mo parallelo; "The chaser" (2008), feroce esordio del già citato Na Hong-jin, in cui un ex detective entrato nel giro della prostituzione e' costretto a reindossare i panni del segugio allorché diverse "sue" ragazze scompaiono in circostanze misteriose. E "The thieves" (2012), di Choi Dong-hoon, spettacolare e vivace esempio di commedia "modello Ocean" all'interno della quale un gruppo di ladri, tra colpi di scena, peripezie, doppi e tripli giochi in cui (quasi) nulla e' ciò che sembra, fa di tutto per impossessarsi di una preziosa collana chiamata "The tear of the Sun". Ancora, "The Berlin file" (2013), di Ryoo Seung-wan, thriller spionistico convenzionale ma sostenuto da un buon campionario di scene d'azione a far da raccordo ad un complicato andirivieni a base di traffico d'armi, agenti in incognito, finanza ed organizzazioni terroristiche. Di tutt'altra pasta, speziato (molti dicono appesantito) da uno stile ricercato, sovente barocco, che non si tira indietro davanti all'uso del 'ralenti', di tessiture musicali "incongrue", di cromatismi vistosi, di esibite violenze e venature horror - tutto ad orbitare attorno al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza - "Confessions" (2010), di Nakashima Tetsuya. Stessa o simile "follia" anima "Sukiyaki western Django" (2007) di Takashi Miike nel quale - segnalata la presenza di Tarantino nei panni di un maestro d'armi - si squadernano di fronte agli occhi, nel cuore dell'archetipico intreccio che vede un eroe senza nome barcamenarsi tra due potentati sempre in lotta, in una fantasmagoria sfrenata e a tratti paradossale, riflessi deformati di Kurosawa, di Leone e di un nutrito numero di spaghetti-western nostrani. Sempre di Miike si ricorda "13 assassini" (2010) - ispirato all'omonima opera di Eiichi Kudo del 1963 - film-di-samurai brutale e in parte pervaso da un cupo fatalismo, via via a stemperarsi fino all'apoteosi iper-coreografica della battaglia finale, cruenta, movimentatissima e pressoché senza scampo per i contendenti. Di respiro metropolitano, invece, e di ritmo ora pronto ad aumentare i giri ora disposto a concedersi pause per seguire i movimenti (anche interiori) di personaggi assediati da una solitudine oramai intrinseca alla loro condizione, due lungometraggi di Pou-Soi Cheang, "Accident" (2009), basato sulle singolari vicissitudini di un killer in grado di mascherare le proprie esecuzioni sotto le spoglie di messinscene intricate al punto da simularne la casualità (almeno fino a quando non dovrà accorgersi che l'imprevedibilità non e' solo una variante dell'ingegno umano ma uno degl'ingredienti primi della struttura stessa del mondo) e "Motorway" (2012), sfida senza quartiere su quattro ruote per le strade di Hong Kong, tra un poliziotto impulsivo, testardo (e il suo più riflessivo compagno) e un eccezionale pilota-filosofo aggregato al crimine. Risale al 2008 "Beast stalker", di Dante Lam, particolare 'noir' sospeso tra colpa e redenzione: la prima vissuta assai malamente da uno sbirro roso da un tormento incancellabile; l'altra perseguita da una madre attraverso la ricerca perentoria di una giustizia il cui sentiero da percorrere e' oltremodo tortuoso. A fare da catalizzatore, una giovane vittima innocente. Indi "Shaolin" (2011), di Benny Chan, epopea tragica nella Cina degli anni '20 travolta dalla devastazione di conflitti intestini in cui il riscatto personale non può esimersi dallo scontrarsi con l'implacabilita' dei gravami da pagare al sangue. Del 2012 e' "Confession of a murder", di Byeong-gil Jeong, paradossale e allusiva parabola contemporanea focalizzata su un omicida (presunto), l'irriducibilita' di un poliziotto cocciuto e stravagante e, nell'opacità dell'incertezza che permea l'intera storia, sulla dolciastra e sinistra capacita' distorcente dei mezzi di comunicazione di massa. Di gusto 'retro'' e piglio a volte ironicamente "saccente", "Bullet vanishes" (2012), di Law Chi- leung, riunisce, attorno ad un caso bizzarro quanto insolubile, l'astuzia, la pedanteria, la scaltrezza e la malinconia di un Holmes e di un Watson in salsa orientale. Suggestioni e atmosfere stranite intridono, al contrario, "Black home" (2007) di Terra Shin, in cui le indagini del goffo assicuratore protagonista conducono la vicenda sul cammino di un orrore imprevisto, di un incubo ad occhi aperti. Rocambolesco e fracassone - infine - quasi un'emanazione (se possibile) arricchita del già caleidoscopico microuniverso de "I pirati dei Caraibi", "Legend of the Tsunami warrior" (2008), di Nonzee Nimibutr, che, tra regni conquistati e perduti, vendette giurate e dilemmi legati alla crescita, tenta, con risultati alterni, di shakerare in due ore abbondanti di spettacolo, battaglie navali, abbordaggi pirateschi, arti magiche e marziali et...
E' sensato notare, pertanto e in conclusione - e proprio in virtù dei pochi esempi appena riportati, chi più chi meno in linea col tentativo di misurarsi con l'esperienza umana all'alba di un nuovo millennio - quanto il divario (di certo geografico ma non solo) che vincolava fino a non molto tempo fa l'Occidente ad una considerazione delle manifestazioni della cultura popolare dell'Oriente - estremo o meno - oscillante tra sussiego, paternalismo, se non pigra indifferenza, si sia assottigliato, e ciò in gran parte perché la partita decisiva - quella della sopravvivenza in un futuro la cui possibilità (al di la' delle "sorti e progressive" tipiche di ogni propaganda) e' ben dentro il regno delle incognite - si gioca oramai su un solo campo, vasto e accidentato come l'intero pianeta, e coinvolge tutti. Fosse solo per attenersi ad un logico principio di precauzione, allora, che sarebbe il caso di sbrigliare un po' più la curiosità riguardo a come la pensano (e a come la vedono) "quelli" all'altro capo del mondo.
- parte seconda -
FINE
TFK


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