Note su Napoli e le città di mare

Creato il 29 giugno 2012 da Antonio
Ogni città ha il suo genius loci.
Il tesoro di San Gennaro è il cuore pulsante di Napoli, parla del sacrificio di un popolo disposto a spogliarsi dei suoi beni materiali per farne dono agli dei. La liquefazione del sangue di San Gennaro e di altri santi, miracoli ricorrenti e puntuali, poteva avvenire solo a Napoli, come solo nelle strade di Calcutta i fachiri possono levitare.
I panni stesi sui balconi di Napoli sgocciolano tempo e storia. La cultura asciuga al sole di Napoli.

Da una finestra del Museo Archeologico di Napoli

Al passaggio di un carro funebre le serrande dei commercianti a Napoli si abbassano in segno di rispetto. In molte città del sud la morte ha ancora il primato sul mercato.
A Napoli il potere viene sistematicamente sbeffeggiato. Notare la statua di Murat in una delle nicchie della facciata di Palazzo reale, con i testicoli vistosamente esibiti sotto il panno teso dei pantaloni.

Dalla facciata del Palazzo Reale a Piazza Plebiscito


Tutte le città di mare hanno qualcosa in comune, un profondo senso di tristezza. Napoli è una città affacciata sul mare ma non è una città di mare. Le città di mare hanno alle spalle qualcosa che indica nel mare l'unica via percorribile, si pensi alle colline e ai monti che stanno alle spalle di Genova. Napoli ha alle spalle un entroterra più facile da abitare, Napoli può essere punto di approdo, e lo è stato, ma non è città portuale da cui partire. Nel passato fu la vicina Amalfi ad esprimere vocazione marinara. Ma la geografia spiega solo in parte il carattere delle città di mare, forse è il carattere a cercare la geografia, non la geografia a forgiare il carattere.
Speranza e disinganno. Il rapporto con l'abisso distingue Napoli dalle città di mare come Genova. Napoli guarda in faccia la morte e le dice "non hai nulla di temibile da mostrarmi perché io ho la speranza nel futuro", Genova guarda in faccia la morte e le dice "non hai nulla di temibile da mostrarmi perché ho già visto tutto". Napoli sbatte in faccia alla morte la speranza, Genova il disinganno.
La tristezza che Napoli custodisce gelosamente sotto una coltre di allegria non è della stessa natura della tristezza delle città di mare e si tu nun scinne a ffunne nun 'o puo' sape'. Solo Pier Paolo Pasolini poteva capire quale tristezza c'era nel volto di Totò, solo Pasolini poteva immergersi tanto in fondo nel volto del principe della risata.
La tristezza di Napoli discende dal tormento di chi vuole volare, la tristezza di Genova è quella di chi sa di non poterlo fare.
In una sera come tante a Napoli, in piazza San Domenico, può capitare di assistere ad una tarantella improvvisata.

La tristezza delle città di mare e dei loro porti, è una tristezza sobria, non si abbandona al lamento, non è tormento, non più. Non è nostalgia, non ha origine nel dolore del passato ma nella desolante consapevolezza del futuro. La tristezza che respiro nelle città di mare è chiara coscienza della finitudine che pure è aperta a ciò che è di là dal mare. E' la tristezza di chi vive sul limes del finisterrae, all'incrocio dei venti. Tristezza dignitosa, celata da attività frenetiche per ingannare l'attesa che ogni limes si porta dietro. Ogni limes è un'attesa. Il confine, qualunque confine, è una linea nel tempo, un desiderio di superamento, la misura di una speranza disattesa.
Davanti al limes delle città di mare diventa chiaro che il desiderio del superamento è l'essenza stessa dello stare al mondo e che il compimento del desiderio metterebbe in discussione quell'essenza, si può fare ma è un sacrilegio che costa caro.
La tristezza delle città di mare è quella che prende Alessandro Magno davanti ai confini del mondo.
Il mare mette di fronte alla fine di ogni fine.
Ed il più grande / conquistò nazione dopo nazione, / e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione perché più in là / non si poteva conquistare niente; / e tanta strada per vedere un sole disperato / e sempre uguale e sempre / come quando era partito. / [...] / Forse non lo sai ma pure questo è amore. R. Vecchioni, Stranamore (Pure questo è amore). In Calabuig, stranamore e altri incidenti, 1978.
La tristezza della gente di mare è quella di Don Chisciotte di fronte agli spazi sterminati della Mancia. Non ha cura quella tristezza perché è la tristezza delle anime oscillanti, pendoli perenni, tra l'ansia di trovare tutto e il terrore di non trovare nulla.
Nella misura in cui il carattere prende la forma dei confini che ci sono dati e che entrano nelle nostre fibre, vedo una consonanza tra la gente di mare e i contadini. Il mare e la terra non possono essere governati, pescatori e contadini lo sanno bene fin dalla nascita, perché pescatori e contadini si nasce, non è dato diventarlo. Per quanta arte e ingegno il pescatore e il contadino possano infondere nelle loro imprese quello che raccoglieranno è un dono, mai un compenso.
I pescatori e i contadini conoscono i confini della terra, ne sono gli ultimi custodi.
I pescatori, contadini del mare, e i contadini, pescatori  della terra, sono il mare, sono la terra.
I pescatori sanno di non poter amare il mare, sanno di non poterlo odiare. Come dei contadini per la terra, non puoi dire che amino la terra non puoi dire che la odino. In questo stallo stanno, gli uni e gli altri, per tutta la vita, in attesa che una folata di vento decida infine della loro sorte, quando ormai poco importa se stare di qua o di là dal confine.

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