Note su "Spring breakers" di H. Korine (1)

Creato il 13 marzo 2013 da Veripaccheri

L' "idiozia americana" - intesa come una sorta d'inerzia sottovuoto in cui si rincorrono, si rimescolano e si confondono senza posa iper-consumismo, feticismo degli oggetti e del denaro (oggetto degli oggetti), assenza di qualunque prospettiva non circoscritta all'assimilazione del momento, ricerca esasperata di esperienze genericamente all'insegna del principio del piacere, utilizzo inesausto del corpo come mero strumento per abbattere o ridefinire le residue barriere tra identità, personalità e genere - rappresenta oramai per tutti, e da qualche decennio, una fetta enorme di questa strana torta (appetitosa in apparenza, amarissima alla seconda, terza cucchiaiata) che e' diventata l'esistenza fisica e psicologica nell'Occidente razionalista/tecnologico/post-capitalista.
"Idiozia", e' bene rammentarlo, che non barbica solo nei virgulti adolescenti ma a volte si fa classe dirigente, le sua mani si aggirano persino intorno al fatidico "bottone rosso". Pensiamo - un esempio fra tanti - all'"American idiot" dei Green Day datato 2004, in cui si sfrucuglia nemmeno tanto in filigrana la figura e l'operato di un Presidente come George W. Bush: quello che faticava a rintracciare l'Afghanistan sulle carte geografiche (cosa, peraltro, che non gli ha impedito di muovergli guerra); quello che alla notizia dell'attacco alle Torri Gemelle s'affloscia in uno stupore e in un imbarazzo davvero "idiot".
Già nel 1977 - sempre per restare in ambito musicale - i Ramones in "Teenage lobotomy" cantavano: "DDT did a job on me/now I am a real sickie/Guess I'll have to break the news/that I got no mind to lose/All the girls are in love with me/I'm a teenage lobotomy". Per dire che incontrare un film come "Spring breakers" di Harmony Korine e' un po' come imbattersi in un amico di vecchia data e notare che, in fondo, oltre a non essere troppo invecchiato, ti ricorda che certe cose ci sono ancora, eccome, e non e' detto che siano migliorate. Ripercorrere le liriche dei Ramones somiglia così al gesto di rovesciare la clessidra pretendendo d'isolare un singolo granello perché - si dice - ogni dettaglio e' utile a restituire l'insieme (nel caso un'epoca), a precisarlo, cioè a renderlo comprensibile. La vanità dello sforzo e' pari solo alla considerazione - tutt'altro che risarcitoria - che il trapasso (e il travaglio) dei tempi sono leggibili a partire da certi dettagli (granelli più grossi, magari, come la voce di Joey Ramone) che proprio lo svolgersi degli anni s'incarica di designare come spinte di fondo. Per questo qualcosa va tralasciato ma talune tracce ricostruibili e ripercorribili a ritroso colmano il divario quantitativo e consentono di capire.

In tal senso, la "post-modernità" inauguratasi nel pieno degli anni Ottanta dell'altro secolo (e che, tra l'altro, aveva ipotizzato l'eventualità di decifrare il mondo a partire solo da se stessa, facendo a meno cioè del passato, ossia della "tradizione") si offre all'interpretazione anche attraverso un'opera come "American psyco" (1991) di Breat Easton Ellis, il cui protagonista, super yuppie dagli abissi mentali rosso sangue, fanatico del corpo, degli stilisti, delle limousine ultra-nere, della ricchezza e del prestigio sociale, si riverbera nelle quattro pupattole di Korine - Brit, Faith, Candy, Cotty - che sembrano esserne la versione 2.0, con in meno le smanie per l'eccellenza e la distinzione, in più una disperazione tanto epidermica quanto bruciante e in comune l'aderenza ai cliché più logori dell'"american way of life": il piacere sincero per il pop da classifica, ad esempio (come le "spring breakers" si baloccano con Britney Spears, Patrick Bateman afferma di apprezzare i Genesis e Phil Collins a partire dalla pubblicazione di "Duke" (1980), con punte di adorazione per "Invisible touch" (1986) e per un brano come "Sussudio" e sorvolando sulle considerazioni intessute riguardo W. Houston e Huey Lewis and the News). O la mancanza di qualsivoglia, seppur generico, orizzonte culturale: per le ragazze la scuola e' una stupidaggine; per Bateman non c'è tempo ma neppure interesse per, mettiamo, i libri. Il college e' stato solo un mezzo per raggiungere e confermare i presupposti di uno scopo (agiatezza, privilegio, status, et.). Le strade si separano su Ellis che chiude il suo psyco-romanzo con un perentorio "questa non e' l'uscita" e il film di Korine che si apre sul doloroso anelito di fuga dall'ennesimo stereotipo (lucidamente preconizzato dagli scenari futuribili ma vividissimi di Ballard) incarnato dalla provincia americana, sottoprodotto di lavorazione della metropoli, desolata e inerte. Giusto in tempo per incrociare un paradosso: più le quattro "sgallettate" - come le avrebbe apostrofate un conservatore sardonico come Alberto Sordi - cercano di evadere dalle tenebre anti-vitalistiche e dalle miserie morali suburbane, più vanno a sbattere, da un lato, nel microcosmo iper-fluorescente e rimbombante dello "sballo", a base d'inteminabili feste sulla spiagge o nei motel, dove si salta a ritmi forsennati, si beve, ci si fa, ci si accoppia o si tenta di farlo, fino allo stremo: vale a dire in una delle variabili della "cumulazione del profitto", cioè in un lavoro. E neanche retribuito. Anzi, col tassametro incorporato e, quindi, tutto sommato, non dissimile dalla miriade di "dead end jobs" che intrappolano milioni d'individui, sottoproletari e non, di cui il capitalismo si nutre avidamente per mantenere, almeno nelle statistiche, i suoi standard e verso cui la risposta - furibonda quanto prevedibile - e' sempre più spesso rapinare un "diner" (come accade nel film) o alternativamente, darsi al taccheggio, allo spaccio o alla prostituzione. Dall'altro lato, ci si confina in una porzione di spazio se possibile ancora più angusta, quella delle gang, entro cui il percorso a circuito chiuso, l'invarianza del triangolo "ottuso" denaro/potere/violenza, dettano le regole dell'unico schema possibile.
Diventa, così, perfino smaccata la relazione incestuosa tra (legittimo) desiderio di divertimento delle tipe (alcune delle quali, in controluce, molto meno "ribelli" di quel che sembrano o piattamente supine alla religione dello "spring break") e (per)versione dell'industria del divertimento, distributore automatico di diversioni ics dollari al chilo, in cui ogni passaggio, ogni forzatura del limite, e' subdolamente quanto inderogabilmente inserita in un menù dalla logica del denaro. Perché e' così (ed e' ovvio quanto si vuole, pero' ribadirlo, in specie a se stessi, può ancora essere utile se non altro come esercizio di presenza di spirito): si può sul serio guadagnare SU TUTTO. Principio abbracciato in tot o anche da Al(ien) - James Franco - che tra un sorriso a dentatura metallica e poesiole rap dedicate alle lolite non fa che picchiare sul punto: "Sono pieno di soldi. Sono "murato" di soldi. Non volevo che i soldi. Li ho fatti e continuerò a farne. Questo e' il Sogno Americano". Concedendosi scarti dirette emanazioni dell'assunto principale: "Guardate quanta roba ho. Vi piace la mia roba ? Ho la casa piena di roba. Ho bermuda di tutti i colori. Ho tutte queste armi. Tante armi e lame. Vi piacciono le mie lame ? Vi piace la mia roba ?".
Tutto e' in vendita. Tutto e' a tiro di portafogli. E' possibile lucrare su tutto. Sull'allegria, sullo smarrimento. Sulla vita, sulla morte. Addirittura sull'indifferenza e sulla stanchezza (Faith e Cotty, in circostanze diverse, mollano il sole - artificiale ? - e il parco a tema chiamato "Florida") innescando, di rimando, un precipitare degli eventi nelle vite delle due amiche rimaste che avrà ripercussioni strettamente "politiche" ed "economiche", nel senso che ridisegnerà gli equilibri di potere e quindi di tutto ciò che galleggia attorno al denaro in seno a quella piccola galassia delimitata da sfere d'influenza che si rinegoziano ogni giorno, quartiere per quartiere, strada per strada, mentre la grande ruota del "divertimento" non ha cessato un solo istante di girare e di produrre.

TFK


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