L’Italia del nostro tempo può essere compresa attraverso diverse produzioni cinematografiche del passato. Novecento di Bertolucci è un lungometraggio, a tratti romanzato, che mette a fuoco la società rurale emiliana nei primi anni del ventesimo secolo, ripresa nei momenti di lotta contro le prevaricazioni e le sottrazioni giuridico-economiche da parte del potere agrario. Fascismo e Liberazione tessono le maglie degli eventi storici entro cui ruotano i due protagonisti: il figlio di un contadino e quello di un proprietario terriero, nati nello stesso giorno, prima legati da amicizia, poi nemici a causa dell’appartenenza a classi sociali opposte. Un film criticato, specie per l’irreale tonalità dell’atto secondo, tacciato di populismo, di eccessiva teatralità, per un finale che sentenzia la morte simbolica del figlio-padrone e per una debordante esposizione della bandiera rossa sventagliata sul popolo liberatore. L’attuale Belpaese racchiude in sé tutte le contraddizioni, le difficoltà, gli scontri, i turbamenti descritti in questo film del 1976 ma con alcune singolari differenze. In questo preciso momento storico appare insanabile il vuoto esistente nel confronto dialettico tra le classi sociali poiché esse sono state ridotte a “popolo massa”, unificato e livellato, altresì considerato privo al suo interno di differenze di istruzione, linguistiche, di condizione sociale, economica, di pensiero politico, con la conseguente estinzione della contrapposizione tra eroe ed antieroe. Il popolo ha già vissuto indegnità, angherie e soprusi da parte dei padroni del potere agrario, dagli adepti del fascismo, dal padronato industriale e oggi, è ridotto allo stremo da quello politico-economico. Nel dopoguerra, esso ha reso la Repubblica italiana una delle principali potenze mondiali, ha lavorato con perseveranza, dedizione, spirito di sacrificio e forza smisurata. Questo stesso popolo ha generato dei figli che rappresentano il punto di contestuale continuità e discontinuità con la storia passata dei loro stessi padri: Continuità, per la consapevolezza della propria provenienza sociale; discontinuità, per l’investimento operato nella cultura e nella conoscenza come mezzi di riscatto da una condizione subalterna. Padri e figli sono stati ammutoliti nello spirito di classe, costretti a un’azione politica privata e individualistica trovandosi inesauditi nelle loro assidue richieste di riforma. La politica viene oggi propinata solo come eredità o passaggio di testimone in un sistema inamovibile ed immutabile, eticamente contraddittorio. I giovani ne vengono coinvolti al massimo come voce gregaria al fine di imprimere verve ai vecchi poteri leader incapaci di sciogliere i nodi alla base dei problemi del paese. Se i politici o i rappresentanti istituzionali fossero o si sentissero padri, anche solo allegorici, dei figli del popolo toccherebbero con mano le loro difficoltà quotidiane, il rammarico per la mancanza di chance, la disillusione insita nel non poter contribuire allo sviluppo della loro patria e forse, di fronte a tale spaesamento, mediterebbero con puntualità rispetto agli interventi da adottare, attivandosi per un ripensamento della politica come risposta-chiave alle diverse esigenze dell’intera collettività. Il ricambio generazionale è bloccato, ostacolato da personalismi e meccanismi ereditari che lasciano ridotta voce in capitolo ai giovani italiani privi di notorietà ma dotati di senso critico e di elaborazioni socio-economiche intessute di novità, di proposte, in linea con principi di equità e redistribuzione, lontane dalle solite riproposizioni pasticciate che non si traducono né in una soluzione per le generazioni odierne né per quelle future.
Articolo pubblicatomi su Il riformista in data 13 gennaio 2012