di Cristiano Abbadessa
Quest’anno, a differenza dell’anno scorso, Book City ha un vero programma, corposo e dilagante (più di 600 eventi; ed è curioso, ma non certo sorprendente, che l’aggettivo “elefantiaco” non sia stato usato da quei giornalisti che l’avevano appiccicato al Festival Letteratura Milano di giugno, coi suoi quasi 200 appuntamenti), ma anche articolato e completo. Ci sono spazi tematici, aree dedicate, incontri diversificati: non solo, dunque, il richiamo dei grandi nomi e degli eventi di maggior risonanza mediatica, ma una distribuzione sul territorio che consente agli interessati di andare a colpo sicuro in quel luogo sapendo che, comunque, vi saranno incontri dedicati a quel tema.
Inoltre per Book City 2013, a differenza dell’anno scorso, i grandi editori che organizzano la rassegna hanno dispiegato tutta la geometrica potenza del loro peso economico e politico. La comunicazione è stata imponente, con grandi spazi e inserti sui maggiori quotidiani (pagati dall’organizzazione, ovvio), una campagna informativa ben distribuita, una visibilità cercata e facilmente ottenuta.
Quest’anno, dunque, gli appassionati di letteratura e dintorni non solo sanno che esiste la rassegna ma, con un minimo di sforzo, possono sapere quali sono gli appuntamenti di loro interesse, dove si discuterà di temi che ritengono importanti, quali aspetti dell’editoria verranno affrontati, in quali sedi i vari generi letterari avranno il loro palcoscenico privilegiato.
Una bella differenza, quindi, con la cosiddetta prima edizione. Che ottenne sì qualche facile spazio sulla grande stampa, ma mantenendo il basso profilo della manifestazione abborracciata, con un programma incerto e claudicante, con un solo vero luogo deputato ad accogliere il pubblico (il Castello) e qualche appuntamento con nomi di richiamo allestito nelle sedi degli stessi grandi editori che hanno voluto la manifestazione. Castello sempre pieno e alcuni eventi di buon successo, è vero, ma a fronte del vuoto desolante e del fallimento della maggior parte degli incontri, distribuiti senza un criterio, non pubblicizzati e abbandonati a se stessi.
Quest’anno, almeno sulla carta, pare davvero tutt’altra cosa. E per gli amanti della letteratura e dei festival sembra esserci davvero solo l’imbarazzo della scelta.
No, naturalmente. Perché proprio il fatto che questa del 2013 sia la prima vera edizione organizzata con criterio e con reale investimento, non può che farci interrogare tutti quanti sul perché, allora, sia stata malamente compicciata in tutta fretta l’edizione del 2012.
La risposta credo sia ovvia. Anticipati dalla nascita del Festival Letteraura (prima edizione a giugno 2012), i colossi dell’editoria milanese (cioè italiana) hanno raggiunto la classica tregua che gli eterni rivali, ma sodali per convergenza di interessi, si concedono quando devono ribadire la loro supremazia. Per evitare che, magari lentamente, il Festival prendesse piede e diventasse un punto di riferimento nel panorama culturale cittadino, ne hanno semplicemente copiato gli slogan e le idee creando, a seguire, un contenitore vuoto ma ingombrante, giusto per ribadire la loro presenza e dimensione. Partendo da zero, non si sono neppure sforzati di creare qualcosa di originale, né di riempire di contenuti un contenitore preso in prestito; hanno semplicemente occupato il calendario e un po’ di spazio sui media, tentando di vantare una primazia che i fatti gli negavano. Sono nati contro qualcosa, per distruggere ogni possibile alternativa al loro modo di concepire l’industria culturale.
Oggi, certo, hanno raccolto volontà e intelligenze in grado di produrre qualcosa di diverso e, a suo modo, encomiabile. Ma questo non cancella il peccato originale di una nascita voluta solo per soffocare altri nella culla. Senza riuscirci, perché il Festival continua; ma, di sicuro, obbligando chi come noi crede in questo progetto culturale a fare i conti, fino in fondo, con la sfida lanciata dal Moloch dei grandi editori.
A margine, registro già i primi boatos dietro le quinte del mondo editoriale milanese, relativi alle disfunzioni di un Book City che scintilla in vetrina ma ha un retrobottega poco presentabile.
Capita infatti di raccogliere le lamentele di piccoli editori che avevano avanzato proposte e sono stati tenuti a bagnomaria senza una risposta per mesi, prima di essere esclusi dal programma senza spiegazioni. Capita di intercettare le proteste di chi si è ritrovato defilato e oscurato, confinato in orari e spazi impropronibili al pubblico pur di non ostacolare i grandi eventi dei soliti noti. Capita di sentire librai che si sentono tenuti ai margini, usati per far numero più che per creare aggregazione. Capita di sentire tutte queste cose insieme, raccogliendo la sensazione di una manifestazione ecumenica nei numeri e nell’apparenza, ma dalla quale trarranno beneficio solo i grandi nomi.
Raccolgo le lagnanze di piccoli editori e librai indipendenti, che hanno la mia umana solidarietà ma non la mia comprensione, per dirla sinceramente. Perché davvero fatico a capire cosa si potessero aspettare i piccoli e gli alternativi quando si sono posti al servizio dei colossi (grandi editori e oligopolisti della vendita a un tempo), entrando ingloriosamente nelle fila del loro esercito.
I grandi editori (e distributori, e venditori) fanno il loro interesse, anche con brutalità, e veicolano la loro prassi di produzione e fruizione della cultura, che è diversa dalla nostra. Come sempre, loro hanno capito benissimo come si conduce la lotta di classe. Gli altri, noi, in troppi casi ancora no.