Un po’ come Il discordo del re. Storia vera, semplice e lineare, per un film ben girato, recitato sanza ‘nfamia e sanza lodo e per questo vincitore dell’Oscar al Miglior film. Ma qui c’è anche la celebrazione del mondo hollywoodiano, che arriva in un momento in cui di idee nuove ce ne sono poche (è il bilancio del cinema USA che esce da questo post) e i sequel vanno per la maggiore. Soliti artifici retorici verso la fine per aumentare la tensione, che si avverte nonostante si sappia già come andrà a finire.
Come con Argo, anche con questo film rimaniamo nel solco della tradizione cinematografica hollywoodiana. Ma in questo caso il fatto che la storia sia originale si rivela un handicap: paradossalmente, scena dopo scena sappiamo già cosa accadrà in quelle successive e i personaggi risultano tratteggiati in modo assai approssimativo. Abbiamo così una lunga carrellata di figure stereotipate e talmente approssimative da lasciare ben poco all’immaginazione. C’è la giovane in carriera che si scopre insoddisfatta della sua vita, il padre burbero ma geniale, la belloccia promessa mancata del baseball americano che cerca di riciclarsi nel mondo degli osservatori e che farà innamorare la ragazza, il ragazzo bianco spocchioso e cicciottello che viene valutato come un campione e che verrà scalzato dall’outsider di origine indiana guarda caso scoperto dalla ragazza grazie agli insegnamenti del padre (non ho anticipato nulla, tanto si capisce tutto dopo mezz’ora di film). Di Eastwood che dire? E’ un vecchio che fa il vecchio e che ormai sa fare solo il vecchio incazzato. Come se non basasse è ancora vivo il ricordo di Moneryball, uno dei migliori film della passata stagione.
Un pastrocchio postmoderno dove si possono avvertire riferimenti a Jule e Jim, Traffic, The Beach, Pulp Fiction e chi più ne ha più ne metta. Tedioso, per nulla adrenalinico, prevedibile. E dal finale imbarazzante.