Nuova generazione perduta

Creato il 18 aprile 2012 da Fabry2010

Pubblicato da lapoesiaelospirito su aprile 18, 2012

di Roberto Saporito

“Com’è strana una piccola città:
se non ti distrugge, ti difende.”
[Bernard Malamud]

Gli occhi non vogliono saperne di restare aperti, è più forte di me, devo spalancarli al massimo e fare piccoli urli con le mandibole estremamente dilatate per tenermi sveglio. Alzo la visiera del casco e mi lavo il viso con l’aria fresca del primo mattino. Sono ore che guido, non ce la faccio veramente più. Ho preso tanti di quei caffè che ho la nausea. Tra l’altro è una cosa abbastanza folle che io sia qui, in viaggio verso Pamplona. È che mia moglie mi ha fatto incazzare, più del solito, cioè, non lo so neanche io. Questi due anni di matrimonio sono stati un vero disastro. E dire che prima di sposarci filava tutto alla perfezione, tutto era bello, tutto andava bene, non c’erano problemi, o quantomeno non ce li siamo mai posti. Poi ci siamo sposati ed è come se si fosse rotto qualcosa, l’ingranaggio che ci ha tenuti in perfetto equilibrio per cinque anni si è guastato, e a me sembra irreparabilmente. Be’, potrei anche sbagliarmi: per la verità non so bene che cosa pensare: il re dei perplessi. Come al solito.
Ogni tanto il sidecar sbanda ma poi con un piccolo urlo da karateka spalanco gli occhi, riprendo il controllo dell’Harley.
Come dicevo è assurdo che sia a mille chilometri da casa, è successo tutto così in fretta! Sono uscito sbattendo la porta, più che altro per prendere una boccata d’aria, poi però di camminare non ne avevo nessuna voglia, così sono salito sul mio vecchio sidecar Haley-Davidson, che uso sempre meno, che un giorno di questi dovrò decidermi a vendere, e ho cominciato a girare per la città. E’ che quella dove vivo io non è proprio una città, è una sorta di ibrido, una via di mezzo fra città e paese, con tutti i difetti di entrambe, con una ben studiata eliminazione dei pregi. Ho girato per un po’, ma dato che non c’è molto da girare lì, sono uscito dalla città senza una meta precisa. Dopo un’ora abbondante sono arrivato al confine con la Francia. Ma sì, mi sono detto, andiamo a prendere un lunghissimo caffè, di quelli che fanno inorridire mio padre. Alla ricerca di un bar aperto sono arrivato a Nizza, sì proprio in Costa Azzurra. Questo bar era vicino al porto e non era molto affollato. Mi sono seduto ad un tavolino e ho ordinato un caffè. Che non avevo soldi francesi ci ho pensato solo mentre mettevo lo zucchero nel caffè. Ho guardato il barista: faccia da gangster incazzato, con tanto di vistosa cicatrice sulla guancia sinistra. I pochi avventori del bar erano della sua stessa forza: strangolatori, stupratori, assassini seriali, ma forse sono solo io che sono sempre più paranoico e spaventato dal mondo che mi circonda: probabilmente loro pensavano la stessa cosa di me. Comunque tutti, tranne uno. Questo tipo era seduto al tavolino di fianco al mio: capelli lunghi neri, occhi scuri coperti da occhiali rotondi dalla montatura dorata, vestito completamente di bianco, minuscolo orecchino all’orecchio sinistro. Leggeva un libro e a intervalli regolari sorseggiava una birra. Il barista badava solo a se stesso, i clienti parlottavano e ridevano rigidi. Io bevevo il caffè e il mio vicino leggeva e beveva. In un attimo di questa seconda fase ho osservato attentamente il libro: “Fiesta” di Ernest Hemingway. Lui se ne è accorto a mi ha sorriso. Sorridendo ho detto “Gran bel libro”, in un pessimo francese. Lui ha nuovamente sorriso annuendo.
Inchiodo per non investire “qualcosa” che mi attraversa la strada e per poco non finisco fuoristrada.
Non so come e perché ma mi sono ritrovato al tavolo del tipo che leggeva “Fiesta”, scoprendo subito che, essendo sua madre di Genova, lui parlava benissimo italiano, tanto meglio. Lui raccontava del libro di Hemingway, io un po’ di mia moglie e un po’ di Fitzgerald. Lui diceva “…sì sì Fitzgerald era bravo, ma vuoi mettere Hemingway!”. E a me in fondo andava anche bene: io avevo bisogno di parlare con qualcuno della mia situazione familiare e lui delle sue frustrazioni di scrittore inedito. Nel frattempo abbiamo bevuto un sacco di birra Leffe Blonde, ma proprio tanta.
Lui ha detto “È l’ennesima volta che leggo questo libro e ogni volta vorrei partire per Pamplona, vorrei vedere la fonte di ispirazione di questo romanzo incredibile…”.
Lui è di fianco a me, che dorme raggomitolato nel sidecar, io farei volentieri altrettanto.
Non ci abbiamo pensato su molto, siamo partiti e basta. Lui ha continuato a parlarmi delle corride popolari della “fiesta” di San Firmino, a Pamplona, cercando di sovrastare il fragore dell’Harley, fino a Toulouse, poi si è addormentato. Prima di addormentarsi ripeteva spesso, con la voce impastata di birra “…io appartengo ad una nuova generazione perduta”. Non ho capito bene che cosa intenda col termine “nuova generazione perduta”, o forse lo so, ma fino ad oggi ho tentato di tenermi fuori da tutto questo: la famiglia, il lavoro, la vita che segue una strada che non avrei mai pensato di percorrere, tutto questo mi ha tenuto lontano dalla “nuova generazione perduta”, come la chiama lo scrittore inedito dormiente. La cosa che più mi sconvolge è che abbiamo la stessa età, ventinove anni, solo che lui insegue il sogno della “generazione perduta”, o qualunque cosa sia, io invece dormo e non riesco più a sognare. Solo qualche incubo, ogni tanto.
C’è una freccia che indica Biarritz, ma non riesco a leggere a quanti chilometri. Mi fermo per bere l’ennesimo caffè. Lui continua a dormire, non lo sveglio. Guardo lui con i suoi occhiali rotondi, i capelli lunghissimi, quei pantaloni larghi, quella maglia enorme, e vedo me stesso. Un me stesso libero da legami, qualunque essi siano, un me stesso che non dorme ma che continua ugualmente a sognare, un me stesso che non sono ma che avrei potuto benissimo essere. Entro nel bar della stazione di servizio. Al di là del banco c’è una tipa assonnata, occhi rossi in frantumi, sicuramente a fine turno. Mi riempie un’abbondante tazza di caffè. Le chiedo se Pamplona è ancora distante, lei dice che non lo sa, non sa neanche dov’è Pamploma, non l’ha neanche mai sentita nominare.
La guardo sconcertato, dico “È in Spagna!”.
“Ah in Spagna” dice vaga come se anche questo “posto” non l’avesse mai sentito nominare.
Tiro fuori il portafoglio per pagare, solo che questo contiene unicamente banconote italiane, dico “Ho lasciato i soldi sulla moto”. Lei osserva il portafoglio che ho in mano con aria interrogativa. Dico “Quello con i soldi francesi è sulla moto”. Lei annuisce poco convinta, io esco e raggiungo l’Harley-Davidson. Lui dorme. Gli sfilo il portafoglio e torno al bar. Lei sembra sorpresa nel vedermi tornare. Sorride in modo più rilassato. Apre una cartina della Spagna e dice “Pamplona non è tanto lontana”. Ribalta la cartina verso di me. Annuendo dico “Grazie”. Lei continua a sorridere e dice “Prendila, te la regalo”. Io dico ancora un “grazie” e lei con una alzata di spalle afferma candida “Tanto a me non costa nulla”.
Chissà mia moglie!, penso lasciando la stazione di servizio. Non era mai successo che non tornassi a casa senza prima avvertire, un vero “selvaggio!” Non era mai successo, però è successo, e io non so se essere felice o cosa. Ma come faccio ad essere felice, che cosa ci faccio su questo scomodo sidecar Harley-Davidson diretto a Pamplona, che cosa centro io con Hemingway, Pamplona e quel tizio che dorme beato come un angioletto da ore, mentre io mi sto spaccando gli occhi per portare “lui” a Pamplona.
Non me ne frega un cazzo di andare a Pamplona, voglio solo ritornare a casa: è questa la verità?
Vorrei essere nel mio letto in attesa del trillo della sveglia. Vorrei sentire il calore emanato dal corpo di mia moglie che dorme al mio fianco. Guardo il mare in lontananza e penso che vorrei tutto e il suo esatto contrario. Come sempre.
Il problema è che non lo so quello che voglio, non l’ho mai saputo, e l’unico modo che conosco per risolvere il problema, è di non pormelo.
Lo scrittore inedito si sveglia e si guarda intorno con una espressione smarrita. Dice “Dove sono!”. Poi si volta verso di me e inorridito aggiunge “E tu chi sei?”. Scuoto la testa e non dico nulla. “Dove andiamo?” domanda ancora.
Mollo l’acceleratore, lo guardo e dico “Possibile che non ti ricordi niente?”.
Lui che è pallido come un cadavere dice “Per favore fermati che sto per vomitare!”.
Fermo l’Harley sulla destra. Lui esce dal sidecar fa pochi passi e vomita. Ho voglia di vomitare anch’io, ma non mi muovo dalla moto, lo sguardo fisso davanti a me. Si siede esausto sul ciglio della strada.
Lo raggiungo e mi siedo vicino a lui. Mi guarda, si massaggia le tempie con movimenti rotatori delle dita, inspira ed espira lentamente col naso, domanda “Andiamo a Pamplona?”.
“Già!” affermo chiudendo gli occhi, sentendomi stanchissimo.
“Sei stanco?” chiede.
Annuisco senza aprire bocca.
“Mi dispiace” dice.
Apro gli occhi e chiedo “E di cosa?”.
“Non lo so, ma mi dispiace comunque.”
A fatica mi alzo e salgo sull’Harley. Lui fa altrettanto. Ripartiamo, ma dopo pochi chilometri fermo la moto di fronte ad una spiaggia. Abbandono il sidecar col suo ospite e raggiungo il mare. Mi tolgo gli stivali neri e le calze, tiro su i pantaloni e metto i piedi a mollo nell’Oceano. L’acqua è gelida e tonificante. Rimango immobile a fissare il mare, respirando lentamente. Il francese si materializza alle mie spalle. È entrato nell’acqua con scarpe e tutto.
“Bello!” afferma guardando fisso di fronte a sé.
Osservo le sue scarpe da tennis bianche in trasparenza nell’acqua e mi viene da ridere. Lui guarda me con i pantaloni tirati su e gli stivali e le calze in mano e ride a sua volta.
“Penso che tornerò a casa” dico.
Lui annuisce e alza gli occhi al cielo chiaro. Esco dall’acqua e mi siedo sulla sabbia bianca. Poi mi distendo e chiudo gli occhi. Lui si siede di fianco a me e dice “Io vado lo stesso a Pamplona”. Rimango immobile con gli occhi chiusi.
“Faccio l’autostop” dice ancora lui.
“Mi sembra un’ottima idea” dico senza muovermi.
“Io vado” dice.
Apro gli occhi, mi metto a sedere, mi alzo. Dico “Mi dispiace”.
“E di cosa?” chiede lui.
“Di tutto” dico.
Lui sorride e allungandomi la mano destra dice “Fa’ buon viaggio”. Stringendogli la mano dico “Anche tu”.
Annuisce ancora sorridendo e se ne va. Io mi lascio andare sulla sabbia e sospiro e mi concentro unicamente sul suono delle onde che si infrangono sulla spiaggia.


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