Texas, seconda metà degli anni Ottanta. Ron Woodroof (McConaughey), che lavora come elettricista nei pozzi petroliferi, conduce una vita sregolata. Ama l’alcol, la droga, il gioco d’azzardo e le donne. Proprio da una prostituta contrae l’HIV ed i dottori, dopo avergli diagnosticato l’AIDS in fase avanzata, gli danno trenta giorni di vita. In un primo momento la sua reazione è incontrollata. Per non sentire il peso degli effetti della malattia, Ron aumenta le dosi di alcol e droga ma così facendo finisce con il peggiorare il suo quadro clinico. Comincia allora a procurarsi sottobanco l’AZT, un potente antivirale in fase di sperimentazione. Quando il farmaco viene però messo sotto controllo dai medici dell’ospedale, Ron decide di recarsi in Messico per procurarsi altro AZT, finendo invece per conoscere un medico radiato che gli prescrive del Peptide T, proteina non approvata dal sistema sanitario americano che però lo aiuta a migliorare la sua situazione. Ron decide così di portare questa sostanza in Texas al fine di venderla agli altri malati e combattere lo strapotere delle case farmaceutiche che, a suo parere, stavano lucrando sulle disgrazie di centinaia di migliaia di persone colpite dalla piaga dell’HIV.
Ciò che colpisce di più di quest’opera è sicuramente la prova immensa di un McConaughey in stato di grazia (già William Friedkin lo aveva valorizzato in Killer Joe, 2011). Non c’è un’inquadratura in tutto il film in cui il suo corpo e la sua voce non rendano perfettamente l’idea di una persona che porta il fardello di un destino ormai irrimediabilmente segnato. Le guance scavate, la voce flebile e incerta (da ascoltare solo nella versione in lingua originale), le vene prominenti sulla fronte e i muscoli di gambe deboli che non riescono a regge il peso di un corpo svuotato, sono solo le evidenze di un’anima persa che cerca di ritrovarsi in una battaglia contro i pregiudizi della società (era opinione comune che l’HIV fosse un problema solo degli omosessuali) e le dinamiche legate al profitto delle case farmaceutiche. Ma oltre a ciò che rimane strettamente legato alla performance di chi interpreta il personaggio principale, che trova in Leto un’ottima spalla grazie alla quale far emergere il suo lato più umano, rimane poco di una storia che soffre il continuo tira e molla temporale (si saltano mesi o anni con una semplice schermata nera) e l’approssimazione con cui si indagano a livello macrotematico le ragioni di una vera e propria piaga sociale. Condivisibile dunque la scelta dell’Academy di premiare con l’Oscar le prove di McConaughey, Leto e dei truccatori Adruitha Lee e Robin Mathews, che in fin dei conti si dimostrano di tutt’altra categoria rispetto ad una sceneggiatura e una regia tutto sommato didascaliche.
Voto: 3 su 5
(Film visionato il 25 marzo 2014)