Nuova recensione Cineland. Grand Budapest Hotel di Wes Anderson

Creato il 11 aprile 2014 da L'Immagine Allo Specchio

Grand Budapest Hotel 
(The Grand Budapest Hotel) di Wes Anderson  con Ralph Fiennes, Saoirse Ronan, Bill Murray, Edward Norton, Frank Murray Abraham  Commedia, 100 min., USA, 2014 

Gustave H (Fiennes) è il concierge del Grand Budapest Hotel, dove oltre a coordinare magnificamente i suoi sottoposti si intrattiene con le attempate e facoltose donne ospiti della struttura. Un giorno egli diventa amico di uno dei suoi collaboratori più giovani, Zero Moustafa (Toni Revolori nella versione giovane, Frank Murray Abraham in quella adulta), il quale lo segue nelle sue peripezie fino a diventarne il protetto. Tra le disavventure che i due protagonisti dovranno superare c’è la battaglia senza quartiere che gli eredi di una conquista amorosa di Gustave muovono a quest’ultimo, reo di aver rubato dalla loro magione un quadro d’inestimabile valore. Bisogna ammetterlo, il film principia come meglio non potrebbe. La storia che stiamo per vedere ci viene presentata come la trasposizione di un tipico romanzo novecentesco, dove l’autore confida nel prologo di aver ascoltato il racconto che segue direttamente dalla voce di uno dei protagonisti. In un meccanismo narrativo a scatole cinesi veniamo dunque catapultati dalla Praga “contemporanea” (quella di chi ha scritto il libro) al Grand Budapest Hotel del 1985 (quando lo scrittore ha ascoltato la storia) e infine all’albergo d’inizio Novecento, luogo mitico raggiungibile grazie ad una funicolare poiché ubicato tra i monti che sovrastano la fittizia città termale di Nebelsbad, nello stato immaginario di Zubrowka, il più orientale d’Europa. Il chiaro riferimento alla cultura e all’ambientazione mitteleuropea (i sanatori e i mastodontici alberghi dove l’aristocrazia riposava le proprie membra traendo benefici dalle acque termali), nonché il periodo storico così definito e pieno d’implicazioni come la prima parte del XX secolo, ci fanno dunque intravedere il capolavoro.  Auspicio che si consolida quando notiamo i pavimenti dell’albergo coperti da tappeti Art Nouveau, la cucina con un reparto d’alta pasticceria creato sul modello della leggendaria bottega viennese Demel ed un Grand Budapest (inteso come edificio) concepito come mix tra i lavori di Achilles G.Rizzoli (la facciata) e il Gorlitzer Warenhaus (gli interni). Ma è proprio da quest’ultimo pastiche e, in modo ancora più evidente, durante lo svolgimento della storia, che ci rendiamo conto di come, nonostante abbia lavorato in Europa e consultato la Collezione di Immagini Fotocromatiche della Libreria del Congresso, Anderson non abbia fatto altro che ricostruire un contesto svuotandolo però dei suoi significati per poi riempirlo col proprio universo visuale. Fin qui tutto bene, se non fosse che, mettendo da parte per un attimo questa operazione meramente stilistica, abbiamo l’amara sorpresa di una storia che regge per la prima metà dell’opera per poi svanire progressivamente in un’accozzaglia di situazioni e di emozioni già sfruttate in ogni singolo capitolo della filmografia andersoniana E allora passi che in un albergo del genere ogni parola o testo scritto sia in inglese, che un sicario abbia le fattezze di un vampiro, che le SS diventino ZZ e che le citazioni da altri film abbondino all’inverosimile (su tutte la scena hitchcockiana della funivia). Rimane però pur sempre il fatto che da un regista quarantaquattrenne con una cifra stilistica riconoscibile e di successo ci saremmo aspettati una decisiva evoluzione contenutistica. Occasione sprecata.  Voto: 3 ½  su 5  (Film visionato il 10 aprile 2014)


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