La tentazione era forte: ripubblicare il pezzo scritto un anno fa, o quello dell’anno prima .. ma non sarebbe stato deontologico, perché il fenomeno, la patologia diventata sistema non si è solo consolidata, si è aggravata. Il CPI 2012, l’indice di Transparency International che misura la percezione della corruzione nel settore pubblico e politico a livello globale colloca l’Italia nel mondo, al 72° posto su 174 con un punteggio di 42 su 100.
Anche quest’anno dunque l’Italia rimane in fondo alla classifica europea della trasparenza, accompagnata da Bulgaria e Grecia, con un voto ben lontano dalla sufficienza e soprattutto dai Paesi ritenuti più etici: Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda (tutti e tre con un voto di 90/100).
La crisi dunque ha paralizzato la crescita, annientato lo stato sociale, impoverito i consumi, ma non quello del malaffare, dell’illegalità, irrobustendoli proprio in virtù del disordine morale, del crescente dispetto delle regole, dell’indulgente tolleranza nei confronti del familismo e del clientelismo che lievitano nel clima economico sregolato, nell’egemonia della precarietà, nell’incertezza delle garanzie, che privilegiano relazioni informali e opache.
È che il deficit democratico che si esprime anche nell’arbitrarietà delle politiche di controllo e vigilanza, nella produzione di norme pervicacemente assolutorie della corruzione, specie se di configura come un peccato veniale commesso dai provati come procedura difensiva per la rimozione di ostacoli, lacci e laccioli, nella pratica di condoni e scudi, nell’indulgente arrendevolezza nei confronti dell’evasione e del riciclaggio che della corruzione sono fisiologici corollari.
TRA minacce del Pdl e anatemi del Pd, la legge anti-corruzione è stata approvata consumando il delitto di compromesso alle spese della legalità, confermando l’indole del ceto dirigente a sostare indefinitamente nelle geografie dello “Stato di eccezione” delle norme ad personam inventate negli anni del berlusconismo da combattimento, della copertura di abitudini consolidate e legittimate fino a renderle legali: traffico di influenza, di raccomandazione, di champagne, di vacanze in relais, di vasche di cozze più o meno pelose.
Il malaffare prospera nella zona grigia che incrocia politica ed economia, costa ogni anno 60 miliardi ai contribuenti, come ci ricorda la Corte dei conti, se ogni punto in meno nel CPI pesa in maniera grave sugli investimenti esteri, che fuggono anche a causa dell’indeterminatezza e opacità delle regole e se la corruzione sia in grado di far lievitare i . prezzi delle grandi opere pubbliche fino al 40% in più. Altro che redditest, secondo uno studio del Pew Research, i cittadini dei Paesi industrializzati sono convinti che il Paese meno corrotto d’Europa sia la Germania, e a eccezione dei cechi, dei polacchi e dei greci, tutti considerano che il Paese più corrotto sia l’Italia.
Di fronte a questa evidenza, uno Stato determinato a combattere un fenomeno antieconomico e antidemocratico, avrebbe avuto una strada molto semplice da percorrere: allungare i tempi della prescrizione dei processi scandalosamente abbattuti dalle leggi su misura volute da Berlusconi o inasprire le pene per il reati di corruzione e di concussione per induzione. Per ragioni evidentemente inesplicabili o meglio inconfessabili alle opinioni pubbliche, i partiti non hanno voluto procedere su questa via maestra, semplice e coerente con l’obiettivo di rafforzare i principi dello Stato di diritto, autorizzando i peggiori sospetti.
Eppure non è vero che la corruzione sia un destino inevitabile, inflittoci dalla nostra storia. Lo dimostra perfino Singapore, passato in quarant’anni da uno dei Paesi più corrotti al mondo, a un piazzamento, nell’indice di Transparency International, a pari merito con le piccole democrazie nordiche europee e non casualmente, dalla povertà ad un reddito pro capite superiore a 43.000 dollari.
Ma per conseguire obiettivi analoghi non serve uno stato autoritario, ci vorrebbero un governo e un ceto politico autorevole che facesse della lotta alla corruzione un obiettivo prioritario, condiviso dall’intera élite politica e istituzionale, coordinando i controlli di natura non giudiziaria a carico di un’autorità dotata di ampi mezzi e grandi poteri, responsabile di fronte alle supreme autorità politiche per i risultati che consegue. E poi, quando la magistratura intervenisse, il governo e le istituzioni non dovrebbero opporsi alla sua attività di indagine: ma proprio oggi questa istanza appartiene più che ami al regno dell’utopia.
Siamo ormai abituati a inserire la corruzione nel contesto “retorico” della crisi morale, come se si trattasse di uno degli effetti dell’eclissi di un’etica pubblica. Mentre è sempre più evidente che è una delle ricadute più patologiche delle insufficienze della democrazie rappresentativa, delle storture di un sistema partitico che si nutre o è omertosamente complice dell’illecito che a sua volta lo ricatta. E non è certo una patologia solo italiana: il sistema rappresentativo ha consentito un ratto di democrazia, da parte della politica, dei condizionamenti dei poteri finanziari, delle organizzazioni internazionali, prima di tutto Fondo monetario internazionale e Unione europea. Patti per l’euro e patti di stabilità, imposti in cambio di prestiti, sono veri e propri ricatti anti-costituzionali, che privano i cittadini della loro sovranità. E alimentano il circuito dei soprusi, delle “costrizioni” e delle disuguaglianze, inducendo illegalità come fosse una fisiologica “difesa” sia dei pochi ricchi, dalle desiderate ingerenze del settore pubblico, sia i molti persuasi dalla nuova povertà a ricorrere all’evasione, al familismo, alla trasgressione sia pure su scala minore.
A questa corruzione, che è corruzione della democrazia, devono attribuirsi molte delle responsabilità della crisi economica e della incapacità di gestirla, perché è altrettanto vero che la corruzione è una tremenda e potente componente della disgregazione dello stato sociale e un elemento trascinante della “spesa” pubblica.
Per anni anche i partiti del centro sinistra hanno disinvoltamente e ipocritamente liquidato la questione come se si fosse al supermercato a scegliere tra mele sane e mele marce, mentre è evidente da anni che si tratta di una rete “nazionale” di illecito, di un vero e proprio sistema di arricchimento alimentato e coperto anche da norme specifiche, come quella sulla Protezione Civile. E che il furto delle risorse pubbliche, in una fase di emergenza costituisce una slealtà, un crimine e una formidabile voce di spesa solo apparentemente occulta e esplicitamente tollerata da correi, da favoreggiatori o da aspiranti tali.
Se è provato che indirettamente la democrazia serve a temperare gli effetti economici negativi della corruzione, è ancora più vero che la triangolazione di questi tre fattori – democrazia, sana politica, sviluppo economico – contesta la tesi che la corruzione rappresenti un incidente se non una aberrazione limitata e episodica a carico di singoli trasgressori. L’impoverimento va insieme alla corruzione se essa è “l´abuso dei pubblici uffici o delle funzioni pubbliche per scopo di arricchimento” di privati o/e di gruppi, e lo scambio di favori agevola privati che operano nell´impresa, in quella delle costruzioni o industriale, commerciale o dei servizi: come un baro, il corruttore trucca il gioco e si arricchisce con e a spese di tre cose, il denaro dei contribuenti, le leggi e le norme, i potenziali competitori.
Di queste tremende ripercussioni oggi abbiamo un caso di studio davanti agli occhi: il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa ha praticato sulla pelle dei cittadini la più completa, sofisticata e generalizzata fora di corruzione a tutto campo. Estorcendo appoggi e denaro dello Stato, pagando sottobanco amministratori, politici e informatori infedeli, manomettendo dati, leggi e procedure, ricattando i lavoratori e i cittadini. Ed esercitando una forma diabolica di inquinamento ben oltre le polveri e i fumi mefitici, quella forma che Trasparency non rende esplicita me che sottintende, quella delle menti, delle convinzioni, della rappresentanza, quella che persuade perfino quelli in buona fede, che qualsiasi ricatto sia accettabile in nome del profitto, che il mercato renda plausibile e addirittura desiderabile la rinuncia ai diritti, che l’unico concesso sia la conservazione a costo della morte della fatica.