NYNPHOMANIAC vol. 1 e vol. 2: Lars von Trier e l’universo femminile

Creato il 14 aprile 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

I toni dissacranti e provocatori del regista danese, nel corso della sua carriera, non hanno mai smesso di accogliere accuse di ogni genere, dalle reazioni ai primi manifesti che accompagnavano ogni suo nuovo film, fino a quella battuta di cattivo gusto durante la conferenza stampa del Festival di Cannes che gli è valsa l’accusa di apologia di nazismo. I più superficiali hanno accusato Lars von Trier di maschilismo; in gran parte dei suoi film le protagoniste femminili sono spesso vittime di soprusi e atroci sofferenze, in altri vengono rappresentate come esseri bestiali, senza scrupoli e privi di umanità. L’universo femminile era già al centro dei sui lavori in ciò che egli stesso ha definito la trilogia del cuore d’oro: Bess di Breaking Waves, Karen di Idioterne e Selma di Dancer in the Dark; nonostante la loro purezza, la loro sensibilità, il loro rispetto per l’essere umano e il loro inviolabile senso di giustizia, sono tutte vittime di un destino inesorabile che le condanna ad atroci sofferenze per poi trovare pace, spesso, solo nella morte. Ognuna di loro, nel suo piccolo, rappresenta un Cristo femminile lasciato solo dal proprio Dio nel momento della crocifissione, unico essere vivente dotato, nonostante tutto, della forza per sostenere quelle stesse sofferenze inflitte dal destino; ognuna di queste storie si rivela una vera e propria parabola della sofferenza, in cui la fede nella vita e nell’essere umano viene costantemente messa alla prova.

Nella trilogia della depressione, composta dagli ultimi tre film del regista danese, troviamo questo universo capovolto: in Antichrist, in Melancholia e in Ninphomaniac, le protagoniste femminili figurano come hubermench (un super-femminino o, meglio, un oltre-femminino): donne sulle cui spalle pesa il destino del mondo, che muovono i fili di questo universo, con tutte le responsabilità e i sensi di colpa che ne derivano.

In Antichrist il femminile arriva a confondersi con il bestiale, con quell’istinto animale regolato dai cicli fisiologici della natura, con tutto quello che il cattolicesimo ha decretato come demoniaco perché altro rispetto alla purezza dell’animo umano; è lo spiritismo tribale, il culto pagano politeista per la madre terra. La natura matrigna arriverà a manifestarsi attraverso una sorta di calamità naturale, prendendo il sopravvento e vendicandosi contro quell’umanità che ha partorito lo stesso senso di colpa.

In Melancholia tutto ciò che rappresentava la bestialità dello stato di natura assume l’entità di forza universale, quelle energie occulte capaci di vendetta e violenza qui prendono forma attraverso quelle forze che, come fili invisibili, tengono insieme il cielo, sorreggono la terra e regolano l’equilibrio degli astri. Quell’angoscia e quel senso di colpa che schiaccia l’animo della protagonista si rivela paradossalmente giustificato: quel male interiore esistenziale è la manifestazione di un male universale che condanna a morte se stessa e l’intera umanità.

In questo senso, Ninphomaniac si rivela un punto di arrivo e, allo stesso tempo, forse un nuovo inizio nel percorso artistico del regista danese. In esso ritroviamo tutte quelle caratteristiche e quelle tematiche maturate nei sui lavori: le contraddizioni dell’universo femminile, la depressione, il senso di colpa, la sessualità, la sofferenza; il tutto attraverso una messa in scena che chiama gli attori a mettere a nudo tutti se stessi difronte la macchina da presa.

L’ultimo film di von Trier rappresenta un punto di arrivo, in primis, per quanto riguarda l’innovazione estetica: la traballante camera a mano connotativa del von Trier più anarchico e anticonformista trova nuova vita in una fotografia accorta e controllata che, da Antichrist in poi, ha saputo ritrovare una propria identità, attraverso i toni e colori di un estetica fotografica tipicamente digitale. Nonostante Ninphomaniac non manchi di sperimentalismo, i toni più eclettici e dissonanti (dalla colonna sonora dei Ramstein alle incursioni di testo e di immagini extradiegetiche) trovano una loro coerenza in un estetica essenziale e quasi lirica. Razionalità e sensazioni irrazionali si manifestano a fasi alterne, fin quasi a sovrapporsi: la prima attraverso il testo in bianco di parole e formule matematiche in sovrimpressione, la seconda attraverso immagini metaforiche.

La nudità, la violenza e le scene di sesso esplicito presenti nel film sono sono forse quanto di più lontano possa esistere dal pornografico: la sofferenza di cui sono intrise la maggior parte delle scene di sesso preclude un erotismo del tutto libero da sensi di colpa; la crudezza delle immagini ci avvicina allo stesso piacere feticista privo d’amore per l’altro provato dalla protagonista.

Più in generale, Ninphomaniac rappresenta un ritorno all’immanente, alle ragioni della carne prive di qualsiasi aspirazione trascendente: la protagonista del film, Joe, vive in un mondo senza dio, privo di forze naturali occulte, privo di qualsiasi energia universale. I confini del suo mondo interiore si fermano alla fine della sua libertà individuale e del suo libero arbitrio, oltre rimangono solo i suoi impulsi sessuali, quella lussuria che domina tutto ciò che resta fuori dalla razionalità. Tuttavia, a condannarla alla dipendenza dal sesso, non è il semplice piacere, è, piuttosto, il potere che deriva dalla stessa seduzione. Se da una parte Joe è legata a suo padre da un amore indissolubile, dall’altra sente la sua verginità come un peso che la condanna alla vulnerabilità. Assieme alle sue amiche di adolescenza decide di educare il proprio corpo alla totale indipendenza, imparando ad usare il sesso come semplice strumento di potere, condannandosi ad una atarassia interiore che le preclude tanto l’empatia con l’altro quanto la felicità di un amore incondizionato. Ciò che Joe confonde per amore (ritenuto inconcepibile fino ad allora) è in realtà il fascino nutrito nei confronti di chi per la prima e unica volta nella sua vita l’ha sottomessa. Ciò che confonde per amore non è semplice bisogno di essere dominata, è, invece, aspirazione a dominare quell’unico corpo che è riuscito davvero a possederla; è l’aspirazione a catturare la preda più difficile, il pesce più grande.

Nonostante la cura registica dedicata alla messa in scena, sono diversi gli intoppi che disturbano la visione del film, anche quella dello spettatore più indulgente; alcune contraddizioni si intravedono nel vol. 1, diventando più vistose nel secondo capitolo. Non capiamo bene il perché Joe racconti tutta la sua storia a Selingman, ne tantomeno perché lui sia disposta ad ascoltarla, e pure il racconto prosegue, nonostante la scabrosità dei suoi racconti e l’incredulità dell’uomo. Gli interventi di Selingman risultano spesso didascalici e pedanti, ma questo potrebbe far anche parte della stessa personalità del personaggio. In realtà, ciò che più di tutto infastidisce la visione è il riuscire a scorgere le intenzioni del regista, in questo von Trier pecca di presunzione pensando di conoscere il proprio pubblico più di quanto questo non conosca lui: muove i personaggi come pedine, escogita le mosse giuste assicurandosi,  da perfetto stratega, l’evento eclatante; arriva perfino a citare se stesso come il peggior Tarantino. Nulla a che vedere con  la teatralità e il patos di Dancer in the Dark ne con la delicatezza e la solidità narrativa di Melancholia.

Dopo le più perverse avventure sessuali e il rifiuto di una qualsiasi terapia di guarigione dalla propria dipendenza, durante una scalata in montagna, Joe riesce a trovare il proprio albero: è un albero spoglio, quasi del tutto secco e piegato dal vento, la vetta del montagna e l’aridità della roccia sui cui ha piantato le sue radici lo hanno condannato ad un eterna solitudine; un triste presagio che lascia intravedere la sua fine. Salvo alcune sequenze che ci ricordano il von Trier più brillante, man mano che ci avviciniamo al finale il film tende sempre più a perdere tono; il freddo intellettualismo delle ultime battute fra Joe e Salingman provano a dare un senso a gli eventi ma le loro motivazioni appaiono inefficaci e perfino superficiali, un dialogo che non ci ripaga di tutta la sofferenza a cui abbiamo assistito.

Questa rimane, tuttavia, solo la recensione di quel montaggio che, a leggere l’avviso che precede i titoli di testa, Lars von Trier ha approvato ma a cui non ha lavorato direttamente, una versione censurata che avrebbe quantomeno assicurato la distribuzione del film; per quanto ne sappiamo, la versione integrale non capovolgerebbe l’intera percezione del film, ma ciò non toglie che influirebbe notevolmente sull’intera esperienza della visione.

Piero Oronzo


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :