O capitano, mio capitano!

Creato il 07 febbraio 2013 da Giuseppeg
“O Capitano, mio Capitano!”. Con questo verso di Whitman si conclude il celeberrimo film di Peter Weir, L’attimo fuggente. Il fatto che dopo tanti anni questo finale riesca ancora a commuovere, lo si deve alla sua carica emotiva straordinaria e alla bellezza delle immagini. Weir viene considerato troppo spesso come un regista ‘facile’, profondo nei contenuti ma ‘leggero’ nello stile. Questo perché il linguaggio visivo dei suoi film possiede un’intrinseca scorrevolezza, che lo rende assimilabile senza eccessivi sforzi. Ma la ‘pulizia’ delle immagini può essere benissimo indice di qualità, quando assume un preciso valore espressivo. È questo il caso del nostro film. La trama è nota a tutti. John Keating (Robin Williams) è un professore brillante, da poco approdato al prestigioso collegio di Welton, Stati Uniti. I principi di base su cui la scuola si struttura sono quattro: tradizione, onore, disciplina, eccellenza. Non è di questo avviso il professore che, diversamente dagli altri colleghi, sostiene invece la libertà di pensiero e di opinione, e propugna un approccio agli autori non più basato sull’auctoritas, ma sulla fruizione personale del testo, secondo i propri gusti e i propri valori. Queste idee accendono immediatamente l’entusiasmo dei ragazzi. Quasi tutti appartengono a famiglie benestanti, che hanno già programmato da tempo il loro futuro; chi invece, come Neil (Robert Sean Leonard), non è figlio di genitori ricchi, si ritrova comunque sulle spalle il difficile peso delle aspettative e delle attese, che inibiscono qualsiasi spinta verso l’autodeterminazione. Proprio Neil troverà nel suicidio l’unica tragica possibilità di affermazione. La scuola, incarnata dal preside Nolan (Norman Lloyd), corre subito ai ripari e, per salvaguardare la propria immagine, trova in Keating il capro espiatorio ideale. Il professore viene accusato di induzione al suicidio: lascerà immediatamente la scuola e forse anche l’insegnamento. Ha qui inizio la sequenza finale. Con un semplice grandangolo, Weir imprigiona in una sola inquadratura nitidissima tutta la forza espressiva di cui ha bisogno. L’aula è visibile in quasi tutta la sua interezza: la posizione della cinepresa è defilata, e il grandangolo cattura alcune parti di soffitto che, nella prospettiva forzata, sembrano quasi schiacciare gli studenti sui banchi, accentuando così la sensazione di oppressione e di chiusura. Gli studenti sono tutti fermi immobili, sotto il pungolo della disciplina; le loro schiene sono curve, i volti sono nascosti: l’anonimato che li aspetta è così efficacemente evocato. Quando Nolan, che ha sostituito Keating, arriva in classe, i campi totali si alternano a inquadrature individuali: mezzo busto per Todd (Ethan Hawke), il ragazzo introverso che ha trovato grazie a Keating il coraggio per esprimersi, e piano americano per Nolan, la cui figura trova nella cattedra un naturale prolungamento. Quest’alternanza è estremamente funzionale, e nel suo scavo psicologico prepara la scena che si svolgerà di lì a poco. Quando entra Keating, possiamo rilevare la reazione degli alunni grazie ad un’altra inquadratura fissa, ancora una volta semplice ed efficace. La cinepresa si trova dietro le spalle di Nolan, in posizione leggermente sollevata: la sua autorità in quel momento non ha volto, è l’incarnazione del potere ottuso e soffocante; davanti a lui, l’intera classe è messa a fuoco: un secondo grandangolo, perciò, stavolta dalla parte opposta. La figura di Keating si trova così a canalizzare in sé tutte le linee di fuga: la tensione e l’attesa sono quasi palpabili. E veniamo alla scena finale. Keating è ripreso più volte frontalmente, in primo piano: non ha nulla da nascondere, è sincero e franco ; Nolan invece è inquadrato leggermente dal basso, così da farlo incombere su tutti: certamente lo temiamo, abbiamo di lui un’idea parziale e incompleta. Quando i ragazzi si sollevano sui banchi, però, sono loro ad essere inquadrati dal basso: sono loro i giganti, adesso. Nel grandangolo finale, le proporzioni sono invertite del tutto. I ragazzi in piedi sono immensamente più grandi di quelli seduti; il soffitto è solo un punto di raffronto: quell’aula è diventata troppo stretta, per loro. Se ci facciamo caso, Nolan è scomparso completamente dalla scena. Sembrerebbe fuori da ogni logica, ma non lo è: che senso avrebbe Nolan, ora? Il momento è solo il loro. Questi ragazzi hanno trovato finalmente la loro voce. La battaglia è vinta. “O Capitano, mio Capitano!”.

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