“Ho teso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella, e danzo.”
(A.Rimbaud “Illuminazioni”)
Scrivere di Arthur Rimbaud è complicato. Inevitabilmente complicato. Perché la scrittura nasce dalla parola. E Rimbaud era Parola. Somma. Innocente. Brutale. Sublime. Parola.
Sono innumerevoli, incalcolabili, le opere che possono essere lette o recitate prescindendo. Prescindendo dall’autore. Dalla sua biografia. Dal suo trascorso. Dai luoghi in cui si immersero i suoi occhi.
Questo, quando hai a che fare con Rimbaud, è impossibile. E, a mio parere, volgarmente inaccettabile.
Trovarsi vis à vis con i suoi versi è incontrare lui. E’ ammettere. Che la sua innocenza vi contagi come un virus che non avete mai sentito nominare. Vi incida. Vi ferisca lo sguardo e il pensiero in un modo che non avreste neanche lontanamente supposto.
Come certe stanze piene di luce. Là dove l’ iride straziata si ritrae e, d’ istinto, le vostre mani guardiane vi riparano il viso. E col suo inchiostro versato dovrete affrontare la medesima scelta.
Alcuni saranno tentati dalla resa. Chiuderanno la porta a chiave, si volteranno, fingendo di non aver visto. O, più correttamente, di non aver intravisto. Nel dolore delle pupille. Qualcosa.
Altri, i più ostinati, i più impavidi, i moderni Achab della letteratura, oseranno. Oseranno aprire le palpebre.
E, allora, forse si troveranno a dover fare i conti con un ragazzino disobbediente. Avrà il viso di un angelo. E una crudeltà savia in un sorriso beffardo. Avrà diciassette anni. E, mentre voi starete compilando un sms in cui cercate di spiegare alla vostra ragazza che non è colpa vostra se il telefono a Cascabraga non prende, lui starà già scrivendo alcuni dei capolavori indiscussi della storia della letteratura. E, probabilmente, vi strapperebbe il cellulare tra le mani e ve lo tirerebbe dentro un fiumiciattolo. Si godrebbe la vostra disperazione, ne riderebbe sfacciatamente. E, alla fine, vi costringerebbe a prendere in considerazione uno sterminato campo di grano di fronte a voi. Allora, forse, voi vedreste. Vi rendereste conto. E non ci sarebbe compagnia telefonica, con tanto di Bianca Balti vestita da Monna Lisa (che pure è una splendida donna…la Balti, intendo) a tenervi.
Correreste. Con quella libertà che solo i bambini e i poeti posseggono. Fuggireste. Da ciò che è dovuto. Dallo schema. Dal pre-impostato. Dal quadernone delle elementari in cui dovevate per forza saltare un rigo dopo il titolo. Dalla sveglia che suona alle 7. Dal sabato al centro commerciale e poi cinema 3D. Dal traffico della Tangenziale. Dal “quest’anno il blu va tanto di moda.” Rompereste dei modelli. Insieme a Rimbaud. Perché, a diciassette anni, mentre voi sognavate di rivoluzionare il mondo (o almeno il vostro liceo) con un graffito sul muro in stile Banksy, lui stava progettando di stravolgere la moderna prosa e poesia francese. E ce la fece. Li incantò tutti. Li terrorizzò tutti. E quando arrivò là dove perfino la mente del fino ad allora immenso poeta Verlaine, suo compagno, amante, carnefice, vittima, si doveva fermare per umana incapacità, lui tacque. Profeta ammutolito. Beffa delle beffe.
E qui facciamo di conto insieme. Rimbaud nacque il 20 ottobre 1854. Le sue prime opere, per alcuni le più belle, sono datate 1870. Il colpo di pistola sparatogli dal suo adorato, deriso, compatito, Verlaine, è del 1873. Non morì in quella circostanza. Ma sanguinò i suoi ultimi versi. Dire ancora? Non poteva. Non voleva. Sarebbe stato Compromesso. E la sottana logora del Compromesso non s’è mai sollevata per Rimbaud.
Rimbaud era un veggente. Un visionario. Era un santo e un peccatore al tempo stesso. Era l’ Estremo. L’estremo della Parola. L’estremo dell’ incanto e l’ estremo del terrore. Era il grande innamorato di cui, mie signore, vi sareste potute invaghire, senza confidare nell’idea che lui ricambiasse. Mai davvero. “L’amore è da reinventare!” . E avreste sospirato nel vederlo chino su un foglio di carta, come stesse pregando. E avreste sperato in una lettera per voi in stile “Mia dolce Gabriella…”. Mentre sulla pagina si delineava, con quella grafia ferina e elegante al contempo, “Una Stagione all’ Inferno.”
Rimbaud era Violenza. Autentica. Incontrollabile. Incalcolabile. Violenza. Era Dissenso. Contro il perbenismo ottuso della borghesia. Contro il tedio e l’indolenza tipicamente bohémien. “Questo è il tempo degli assassini”. (“Illuminazioni”) .Era la Purezza salvifica del bambino. Era la dolorosa consapevolezza del cuore d’un pagliaccio. “Non voglio essere un santo, piuttosto preferisco essere un clown”. (F. Nietzsche “Ecce Homo”)
Se volete un’ immagine immediata di quello di cui sto scrivendo, aprite un’altra finestra su google chrome. Non Explorer, per favore. O munitevi di un portatile, se siete stati così carini da aver stampato questo articolo. Digitate “Picasso” e “I saltimbanchi.” Osservate. C’è un ragazzino seminudo al centro della tela, diviso tra la madre e i simboli del suo imminente futuro: il giovane e l’anziano. E’ distante. E’ in attesa. E’ inaccessibile nel suo vegliare. Quello è Arthur Rimbaud.
Vi piace?
E’ il viaggiatore. Perché Rimbaud ha vagato nella fonetica e nel mondo, come fa Arlecchino nelle storie che ascoltavate da ragazzini. E’ l’errante. E’ il vagabondo. E’ il saltimbanco nell’atto di compiere una capriola.
“Mi sono sdraiato nel fango. Mi sono asciugato al vento del delitto. E ho giocato qualche brutto tiro alla pazzia.” (“Una stagione all’ Inferno”).
Rimbaud è il celebrante e il celebrato. E’ il dolente Abramo e l’ossequioso Isacco. E’ il suo cuore il sacrificio. La sua penna il suo pugnale. “Dopo i mozziconi distrutti, che fare, o mio cuore rubato?” . (“Il cuore rubato” o “Il cuore straziato” o “Il cuore di pagliaccio”.)
Questa non vuole essere e non deve essere una recensione. Perché sarebbe un oltraggio a colui che detestava parlare delle sue poesie, recensirle. Somiglierebbe a porre vile oro su una testa già incoronata dai raggi del sole. Da quell’alba che lo commuoveva. Da quell’alba che egli stesso sosteneva di piangere.
Questa, ripeto, non può e non deve essere una recensione. Ma un ritratto appena tratteggiato. Un aver scostato una tendina, da irrispettosa rispettabile voyeuse della poetica, che dà su una stanza in cui un bambino se ne sta sdraiato su pezzi di tela grezza. Tela grezza che, nella sua caleidoscopica mente, ha lo spessore di una vela di una gigantesca nave.
Non posso suggerirvi quale opera considerare di Rimbaud. Perché la decisione, con questo ribelle francese, non potrà mai essere una sciatta questione come <Avete “Una stagione all’inferno?…no? No, “Illuminazioni” non lo voglio… certo che sarebbero altri punti sulla tessera fedeltà …>
O è Rimbaud. O non lo è.
Ma, se opterete per lui, allora avrete la straordinaria opportunità di capire perché, ad esempio, solo “A” sa essere” nero corsetto villoso di mosche splendenti che ronzano intorno a crudeli fetori, golfi d’ombra” e solo ”I” coincida con ” porpora, sangue sputato, risata di belle labbra, nella collera o nelle ubriachezze penitenti.”
“Per te che ami nello scrittore l’assenza di facoltà descrittive o istruttive, io strappo questi pochi e ripugnanti foglietti dal mio taccuino di dannato.” (“Una stagione all’Inferno”)
La sua parte lui l’ ha fatta. Io, forse, ho avuto l’onore delle presentazioni. Il resto, se vorrete, spetterà al coraggio della vostra testa. Gettare via, o almeno spegnere, il vostro iphone o blackberry che sia.
Spetterà al coraggio dei vostri occhi. Piangere per un’ Alba.