La Crimea è oggi per certi versi una nuova Berlino Est: nonostante le proteste e le minacce, per gli Usa la possibile annessione russa rappresenta paradossalmente la soluzione ideale della crisi innescata dalla cacciata di Yanukovic. E a spingere per un esito del genere è stata proprio la Casa Bianca, fin dall’inizio, quando Obama ha dichiarato che l’occupazione russa della Crimea avrebbe avuto “un costo”. Cosa intendeva? Se voleva minacciare Putin, perchè invece di un’espressione così sibillina non ha usato il piú incisivo termine “conseguenze”? Possibile che i ghost-writers di colui che guida la prima potenza militare al mondo non abbiano saputo trovare un termine più incisivo? Dinanzi alla piú grave crisi tra Mosca e Washington da trent’anni a questa parte, le parole hanno un peso maggiore, e quindi non ci si puó permettere fraintendimenti. E dunque quel termine potrebbe essere stato usato di proposito.
Il presidente evidentemente intendeva comunicare qualcosa che di certo non era una minaccia, piuttosto un’indicazione per uscire alla svelta dal pantano. Nella dichiarazione del 28 febbraio Obama potrebbe certo aver voluto riferirsi ad un isolamento economico, come l’estromissione della Russia dal G8, con conseguenti costi per la stagnante economia russa, ma è più probabile che abbia voluto far sapere agli “addetti ai lavori” ucraini e russi come intendevano reagire gli Usa dinanzi alla pressione di Putin sulla Crimea: i costi a cui Obama si riferiva erano probabilmente quelli di un impegno militare statunitense al fianco di Kiev, insostenibili sia dal punto di vista finanziario che politico.
Un messaggio sicuramente diretto al neopremier ucraino Yatsenyuk, che voleva suonare come un “siamo con voi, ma scordatevi uno sbarco dei marines a Sebastopoli, io non rischio certo la guerra con i russi e il disastro economico per uno scoglio”, ma rivolto anche e soprattutto a Putin, tipo “la pace ha un costo, e noi lo paghiamo volentieri facendovi prendere la Crimea: un costo minimo per noi e per Kiev, visto che la regione è storicamente parte della Russia ed è abitata da russi che con gli ucraini non ci vogliono stare, così ci evitiamo pure che la situazione degeneri come nell’ex Jugoslavia. Caro Vladimir Vladimirovic, se vuoi mantenere il tuo bel naviglio a Sebastopoli a guardia del tuo gioiellino South Stream (il colossale gasdotto che i russi stanno costruendo sotto il Mar Nero, proprio a largo delle coste ucraine) fa’ pure, ma il costo da pagare è l’Ucraina russofona: quella resta a Kiev e i tuoi uomini lì non ce li mandi”.
Dunque dal presidente americano sarebbe arrivato un implicito riconoscimento del ruolo dominante (ri)guadagnato dalla Russia nello spazio ex sovietico, che ricorda una caratteristica delle relazioni Est-Ovest tipica della Guerra Fredda: una superpotenza accettava informalmente la leadership dell’altra all’interno del suo blocco, ed evitava interventi diretti negli affari interni di nazioni alleate o satelliti di quest’ultima, concentrandosi più sul sostegno a organizzazioni amiche nei Paesi non allineati in Africa, Asia o America Latina.
Per evitare un pericoloso deterioramento dei rapporti con Mosca, Obama oggi si colloca nel solco della realpolitik e lancia indicazioni a Putin su fin dove deve spingersi in Ucraina, che, a sua volta, risponde con cenni di assenso: la Russia sembra infatti defilarsi rispetto alla rivolta nelle regioni russofone di Donetsk e Kharkiv, come se il Cremlino volesse dare a Washington la sua disponibilità a lasciare a Kiev l’Ucraina orientale, in cambio della Crimea e della salvaguardia delle relazioni bilaterali.
In sostanza, la crisi ucraina altro non è che un’iniziale fase di cristallizzazione di due nuovi blocchi contrapposti, molto simile a quella iniziata a fine anni Quaranta del XX secolo, quando il blocco atlantico e quello sovietico iniziarono a consolidarsi: nel 1948 Truman lasciò che Stalin si prendesse la Cecoslovacchia con un golpe, poiché, al di là delle dichiarazioni di facciata, non aveva materiale interesse ad intervenire a Praga, così come una sibillina frase di Eisenhower (“il cuore dell’America è a Budapest”) nel 1956 diede il via libera all’invasione russa dell’Ungheria, come pure nell’estate 1961 una sedicente minaccia di Kennedy a Mosca (“Interverremo militarmente a difesa di Berlino Ovest”) fece capire a Krusciov che ciò che accadeva a Berlino Est non interessava alla Casa Bianca.
Dopo il multilateralismo (che è sembrato più un unilateralismo statunitense) susseguente al disfacimento dell’Urss, siamo prossimi ad un ritorno al bipolarismo Russia – Usa: non siamo ancora ai livelli della “dottrina della sovranità limitata” di brezhneviana memoria, ma sembra proprio che una nuova cortina di ferro stia calando sull’Europa. Stavolta però, invece che a Berlino, corre ad ovest di Sebastopoli.