Dopo quattro anni di presidenza, Barack Obama è stato riconfermato alla Casa Bianca per un secondo mandato.
Ha prevalso sul suo rivale Mitt Romney con un totale di 303 voti elettorali contro i 206 del repubblicano.
In termini di voto popolare il vantaggio del presidente in carica si è tradotto in un margine di circa 2 milioni di preferenze.
Quella di Obama non è stata una vittoria a valanga, un landslide, come si usa dire negli Usa, ma è stata una affermazione importante.
Esempi di vittorie senza storia sono state quelle di Richard Nixon nel 1972 contro l’appena deceduto George McGovern o quella di Reagan contro Walter Mondale nel 1984 (in cui i vincitori lasciarono ai perdenti solo i voti elettorali del loro stato di origine).
Obama ha concesso a Romney di appropriarsi dei voti elettorali di stati conservatori importanti come il Texas, la Georgia o l’Arizona, ma è riuscito a vincere sia nello stato del suo avversario, il Massachussets, sia in Wisconsin, quello del candidato vicepresidente Paul Ryan.
Non solo, il primo presidente nero ha prevalso in tutti gli stati in bilico, i battleground o swing states, quelli cioè in grado di spostarsi di elezione in elezione a favore del candidato democratico o di quello repubblicano.
Ha vinto in Ohio, il battleground state of the battleground states (grazie ai voti degli operai delle fabbriche d’auto salvate dal fallimento con i denari dello stato federale), ha prevalso in Colorado, Nevada e New Mexico (sostenuto in massa dal voto latinos, rilevante minoranza di quegli stati) e si è aggiudicato la Virginia, primo democratico a farcela dai tempi di Lyndon Johnson (per l’apporto determinante del voto nero, accorso in massa alle urne).
Obama è riuscito a riunire sotto la sua leadership la stessa coalizione elettorale che gli permise di arrivare alla Casa Bianca nel 2008: ispanici (a seguito del varo di un ordine esecutivo a favore dei figli di immigrati latinos irregolari, neri, operai della classe media, giovani sotto i 30 anni e soprattutto donne.
Queste ultime, dopo un certo sbandamento a favore di Romney nelle settimane finali della campagna, sono tornate a votare in massa per un candidato pro choice, a favore della libertà di scelta in relazione all’aborto, spaventate da repubblicani come Todd Akin e Richard Mourdock (entrambi sconfitti) che sostenevano che se una donna fosse stata oggetto di stupro era da considerarsi come una volontà di Dio.
A questi serbatoi di voto, in alcuni stati, si sono aggiunte altre constituency. Ad esempio, in Florida, gli anziani, hanno votato in massa per Obama temendo che se avesse vinto Romney, egli avrebbe trasformato, sin dal primo giorno, il sistema sanitario gratuito per gli over 65, il Medicare, in un apparato parzialmente privato e fondato su voucher.
Anche le minoranze LGBT, lesbiche, gay e trans gender hanno espresso in gran numero il loro apprezzamento per Obama grazie alle sue dichiarazioni per il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Nel nome di Barack Obama si sono quindi saldate insieme una serie di istanze di varie minoranze dal segno generalmente progressista che gli hanno garantito la riconferma alla Casa Bianca.
Con il loro aiuto Obama è riuscito a sopperire al calo di preferenze registrate tra gli elettori indipendenti, quelli non schierati con l’uno o l’altro partito, e non più incantati dal messaggio di change, cambiamento, difficilmente riproponibile dopo quattro anni di governo a Washington.
Il messaggio che emerge da queste elezioni è quello di un vero e proprio rigetto di ogni tentativo di ritorno al passato (incarnato da Romney con le sue politiche a favore dei ceti più abbienti, simili a quelle assunte da George W. Bush) e prova ne è anche il proliferare, nel giorno delle presidenziali, di referendum di stampo riformatore in stati come Maryland o Maine che hanno permesso la legalizzazione dei matrimoni gay.
Siamo quindi ben lontani dai referendum anti tasse come la proposition 13 del 1978 che, in California, aprì la strada della presidenza a un campione del conservatorismo come Ronald Reagan.
Non a caso, alcuni commentatori, come Ross Douthat del New York Times, hanno scritto che la seconda vittoria di Obama rappresenterebbe il definitivo superamento dell’era reaganiana.
Quel che appare chiaro, anche alla luce del primo discorso di Obama appena rieletto, è che nei prossimi quattro anni, l’America sarà meno presente sulla scena internazionale, impegnata a sanare le sue ferite, economiche, sociali e relative ai problemi delle minoranze.
Obama ha rinnovato l’ideale del sogno americano, ha parlato anche di una nazione disposta ad accogliere tutti, ma soprattutto è parso voler rinnovare l’obiettivo, più volte proclamato negli ultimi due anni, di una azione di nation building at home, una ricostruzione del tessuto sociale ed economico nazionale, lacerato da assurde e pretestuose proiezioni belliche internazionali e ben diverso dal nation building proclamato da Bush jr in Iraq nel 2003.
L’America di Barack Obama dei prossimi anni potrebbe apparire più ripiegata su sé stessa e sulle sue problematiche interne, senza però sfociare nell’isolazionismo degli anni ’20 che favorì aberrazioni totalitarie come il fascismo e il nazismo (il richiamo ad Alba Dorata in Grecia non è casuale).
Obama ha concluso il suo discorso dicendo che per l’America, non divisa tra repubblicani e democratici, stati rossi o blu, bianchi e neri (un messaggio di unione che gli è proprio sin dal key note speech della convention del 2004) il meglio deve ancora venire (best is yet to come), ma per gli Stati Uniti, non per il mondo.
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