Nella settimana appena terminata, Barack Obama ha compiuto la sua prima storica visita presidenziale in Israele.
Non si tratta del primo viaggio del leader americano in Terra Santa.
Vi era già stato nel 2008, accompagnato da un gruppo di colleghi senatori, tra cui il nuovo ministro della Difesa, Chuck Hagel.
L’atmosfera era però molto diversa.
Obama era nel pieno della sua campagna per le primarie democratiche e le primavere arabe del 2011-2012, erano ben oltre l’orizzonte.
Il discorso del Cairo del 2009, con le sue aperture al mondo musulmano (che secondo molti potrebbe essere stato il detonatore dei successivi sommovimenti arabi) non era nemmeno stato concepito dal giovane “junior senator” dell’Illinois.
Oggi, dopo quattro anni alla Casa Bianca, e dopo un intero mandato, il 44^ presidente ha deciso di recarsi in Israele per la sua prima visita ufficiale.
Molte le ragioni che lo hanno spinto a compiere il viaggio.
Prima di tutto, la necessità di ricomporre i contrasti, sviluppati nel corso degli anni, con il primo ministro Benjamin Netanyhau.
Questi è stato appena riconfermato alla guida dell’esecutivo israeliano, dopo le elezioni di inizio anno, ma, la sua posizione politica è molto più debole rispetto al passato.
Le fazioni più oltranziste e convinte di rinviare sine die il dialogo con i palestinesi sono state ridimensionate dalle elezioni di gennaio;
Netanyhau, per ottenere la maggioranza necessaria a formare il suo governo ha dovuto imbarcare nell’esecutivo persone come Tzipi Livni, già esponente di Kadima, il partito centrista formato da Ariel Sharon, dopo l’uscita dal Likud, e notoria sostenitrice della necessità dei due stati palestinese e israeliano.
Non solo, l’uscita di scena, proprio a seguito delle primavere arabe, di solidi alleati americani nella regione come Hosni Mubarak in Egitto o il notevole indebolimento di altri come re Abdallah in Giordania, ha reso urgente rafforzare la comunità di intenti tra gli Usa e Israele, l’unica solida democrazia dello scacchiere.
Di qui, la necessità di un viaggio con cui dare credibilità ad un leader spesso poco amato da Obama.
Le stesse recenti turbolenze regionali, con l’instaurarsi di regimi, spesso poco favorevoli ad Israele, e il rafforzarsi della leadership regionale dell’Iran hanno convinto la Casa Bianca che solo un viaggio del presidente avrebbe potuto ribadire agli occhi delle opinioni pubbliche locali la indissolubilità dell’alleanza Usa-Israele.
Non a caso, Obama è stato accompagnato a visitare una postazione missilistica facente parte di Iron Dome, il sistema antimissile con cui gli Stati Uniti hanno voluto proteggere il suolo israeliano dai razzi sparati da Gaza.
Le stesse esigenze di sicurezza hanno spinto Obama a fare una concessione importante a Netanyhau riguardo il tema del nucleare iraniano.
Il presidente ha sostenuto che il suo paese non avrebbe nulla da obiettare nel caso in cui Israele decidesse di attaccare gli impianti atomici iraniani per le sue presunte esigenze di autodifesa.
Un punto su cui Obama non aveva mai voluto transigere in passato, temendo che, dando luce verde all’alleato, potesse trovarsi coinvolto in una nuova guerra mediorientale.
In cambio di tale concessione, Obama ha ottenuto da Netanyhau altro tempo per permettere alla sua diplomazia di operare per capire le vere intenzioni atomiche di Teheran.
Egli, a differenza di quanto aveva detto il primo ministro all’Onu, in settembre, ha spostato di un altro anno il termine entro il quale l’Iran potrebbe disporre, se lo volesse, di una arma nucleare.
E il processo di pace con i palestinesi? La visita di Obama non ha portato molti passi avanti.
Sono ormai lontani i tempi in cui il giovane presidente non esitava a scontrarsi con Netanyhau per ottenere il congelamento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania o West Bank, e a Gerusalemme Est.
Insediamenti che andavano progressivamente ad occupare terre che, secondo gli accordi internazionali, avrebbero dovuto costituire il nucleo iniziale del futuro stato palestinese.
Obama ha compreso che usare i toni forti non serve con Netanyhau e che, se davvero vorrà ottenere la pace in Terra Santa, una delle priorità del suo primo mandato, è necessario operare senza scontri, strappi o alti proclami.
Forse l’unico modo per ottenere reali progressi è applicare anche al conflitto israelo-palestinese la dottrina obamiana, già adottata in altri scacchieri, del “leading from behind”, del guidare i processi dalle retrovie.
Ad esempio, lasciando più libertà alle iniziative diplomatiche di amici come l’Arabia Saudita o la Turchia di Recep Erdogan (importante è stata la telefonata propiziata proprio da Obama tra Netanyhau ed Erdogan) e permettendo ad un segretario di Stato di livello come John Kerry di ripetere la fortunata “diplomazia della spola” che permise ad Henry Kissinger di ottenere la pace tra Egitto ed Israele, poi formalizzata a Camp David da Jimmy Carter.