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Obama vs Romney: verso l’ultimo braccio di ferro. Intervista a Francesco Costa

Creato il 19 ottobre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Giuseppe Dentice

A poche settimane dalle elezioni presidenziali del 6 novembre, la campagna elettorale negli Stati Uniti è entrata nel vivo della competizione grazie agli accesi dibattiti televisivi tra i due sfidanti e i loro vice. I temi di politica economica interna e le questioni legate alla crescita e alla disoccupazione hanno avuto, come da tradizione, la meglio sui temi di politica estera. In questa delicata fase della sfida elettorale sembra regnare l’equilibrio, anche se ha sorpreso molti analisti il tono dimesso e il marcato nervosismo di Obama, forse stanco dalla lunga e logorante campagna mediatica e dalla difficile situazione economica interna. Inoltre, i recenti attentati alle rappresentanze diplomatiche USA nel mondo arabo e l’omicidio dell’Ambasciatore Chris Stevens a Bengasi sembrerebbero penalizzare particolarmente l’operato di Obama in politica estera – pur contraddistinto da alcuni importanti successi – alimentando, dunque, un giudizio negativo che tuttavia Mitt Romney sembra non aver saputo pienamente sfruttare.

Obama vs Romney: verso l’ultimo braccio di ferro. Intervista a Francesco Costa
Delle possibili variabili della sfida elettorale, dei temi e dei caratteri dei due candidati alla Casa Bianca, ne abbiamo discusso al Festival di Internazionale di Ferrara con Francesco Costa, giornalista pubblicista e collaboratore de “Il Post” e di “IL” – magazine de “Il Sole 24 Ore”. Esperto di politica americana e di campagne elettorali, ha in passato collaborato per “l’Unità”, “Internazionale”, “Liberal” e “Giornalettismo”.

Le prime battute dei dibattiti presidenziali hanno visto prevalere, un po’ a sorpresa, il candidato repubblicano Romney nei confronti di un Obama apparso dimesso e poco combattivo. É verosimile pensare che il Presidente abbia inizialmente volontariamente rinunciato ad utilizzare le carte più pesanti (la gaffe sul 47% degli Americani “parassiti”, l’indagine per reati fiscali nei confronti della Bain Capital, società di private equity di cui il repubblicano è stato fondatore e da cui riceve tuttora pagamenti) per farle valere negli ultimi scorci di campagna elettorale, quando cioè potrebbero risultare più influenti sul voto?

In una campagna elettorale come le presidenziali USA, non credo che un candidato possa avere come strategia quella di partire con un profilo più basso, anche perché qualsiasi evento può essere decisivo non solo in relazione ai meccanismi che potrebbe essere in grado di generare ma anche per come questi possano essere recepiti e rielaborati dalla stampa e dai mezzi di informazione, incidendo quindi sull’andamento e sull’esito della campagna elettorale stessa. In realtà credo che ad Obama abbia fatto più male non tanto “perdere” il primo dibattito, quanto piuttosto dover ascoltare per diversi giorni i commenti di opinionisti ed analisti che lo hanno dato immediatamente per spacciato. Credo piuttosto che Obama a Denver abbia risentito dell’approccio di Romney, che si aspettava essere sicuramente diverso: il Presidente uscente probabilmente si aspettava semplicemente un atteggiamento aggressivo e più spostato a destra alla luce degli ultimi sondaggi che davano Romney in netto svantaggio; il repubblicano, invece, è stato sì aggressivo, ma ha spiazzato Obama quando si è dimostrato più possibilista e più ben predisposto al compromesso anche su questioni cruciali come la riforma sanitaria e il fisco, in relazione alle quali ha centrato i nodi essenziali. Questo ha spinto Obama – chiaramente a disagio – a dover giocare in difesa. Ad ogni modo sono convinto che nei prossimi giorni assisteremo ad un Presidente decisamente più combattivo.

Il primo terreno di scontro tra Obama e Romney è naturalmente la difficile situazione economica del Paese e della classe media americana. Dati recenti segnano un calo della disoccupazione USA (che si attesta al 7,8%, il livello più basso dal gennaio 2009 e cioè al momento dell’insediamento di Obama): questi dati potranno migliorare la percezione di come il democratico abbia saputo gestire la crisi? Il Presidente uscente si è mostrato capace di favorire la ripresa?

I dati dicono che l’economia americana da un anno e mezzo a questa parte è lentamente ripartita. Ciò è comprovato anche da alcuni sondaggi in cui è stato chiesto ai cittadini cosa pensassero della situazione economica del Paese: la maggioranza ha risposto che il quadro è in ripresa. Si tratta di uno spunto interessante poiché non accadeva da diverso tempo che un sondaggio riportasse un tale dato e sembra rafforzare gli argomenti di Obama. Tuttavia, ogni dato preso a sé e decontestualizzato rischia di perdere senso. Prendiamo il caso della disoccupazione, appunto: il dato non misura chi è rimasto senza lavoro, bensì chi è in cerca di lavoro tra quelli che ne sono senza. Il problema è che si tratta pur sempre di un dato di difficile interpretazione, anche quando gli stessi dati elaborati dagli enti specializzati indicano la medesima tendenza. È certamente difficile, tra l’altro, presentare all’opinione pubblica una “ripresa lenta” come risultato positivo, senza dimenticare la scarsa capacità di manovra in materia da parte dell’attuale Amministrazione. Di fatti nell’ultimo biennio Obama si è trovato di fronte ad un Congresso quasi totalmente controllato dai repubblicani, cosicché dal 2010 ad oggi ha potuto fare molto poco. Anzi, si può affermare che l’agenda di Obama in merito si è da allora fermata. Ciò su cui il Presidente può contare è il pacchetto di stimoli all’economia da 787 miliardi di dollari approvato all’inizio del suo mandato, salutato come una pietra miliare per la ripresa, ma che è stata contestato da ambo le parti, poiché troppo blando per i democratici e troppo eccessivo per i repubblicani. Credo che in questi ultimi frangenti di campagna elettorale Obama non approfondirà troppo questi temi, ma, piuttosto, punterà a dimostrare come Romney non sia credibile e come sia inadeguato ad affrontare la crisi.

Restando sui temi economico-finanziari: la Fed ha intrapreso nel corso dell’anno una serie di operazioni (per esempio Twist – l’acquisto di titoli a lungo termine contro vendita di titoli a breve – e il programma di quantitative easing QE3) per sostenere la ripresa con orizzonti temporali sufficientemente lunghi. Quanto ha inciso l’intervento Fed nella campagna elettorale di Obama?

Ritengo che le misure della Fed non avranno alcun un peso nella campagna elettorale e di certo non favoriranno Obama, in quanto sono misure che non produrranno effetti nel brevissimo periodo. Sono troppo poche le settimane che ci separano dalle elezioni del 6 novembre e, benché queste siano mosse che dovrebbero dare più solidità all’economia americana, certamente non potranno dare un’accelerata alla ripresa economica.

Sebbene la tornata elettorale sia stata dunque caratterizzata principalmente dall’economia, la politica estera ha comunque offerto spunti interessanti, come le rivolte islamiche o il generale cambio di visione strategica statunitense verso la regione dell’Asia-Pacifico. Quanto di tutto questo è stato realmente percepito dall’opinione pubblica e quanto può pesare sul risultato elettorale?

Non credo che queste saranno elezioni in cui la politica estera avrà un peso, anzi fino ad ora non hanno contato praticamente nulla nel dibattito elettorale. Di sicuro questo sfavorisce Obama che nella politica estera ha forse raggiunto i suoi migliori successi politici: è riuscito a mantenere le promesse fatte 4 anni fa circa il ritiro dall’Afghanistan e dall’Iraq e – andando oltre l’uccisione di Bin Laden – può vantare successi diplomatici come il sostanziale contenimento della Cina, essendo riuscito a strapparle dalla sfera di influenza politica un Paese strategico come la Birmania. Ma nonostante ciò, il primo mandato di Obama è stato per forza di cose incentrato sull’economia e sarà sulla base di questa che l’elettorato giudicherà il Presidente. Ciò che effettivamente avrebbe potuto costituire una sorta di novità, ed avere un peso nella diatriba elettorale, sono le recenti proteste anti-occidentali e anti-USA nel mondo arabo poiché è ormai nella convinzione di tutti che qualcosa nella macchina dell’intelligence americana non abbia funzionato. Se Romney avesse voluto attaccare Obama su questo punto, la politica estera avrebbe riguadagnato la sua importanza; invece così non è stato e, anzi, Romney – che già di base non mostra una grande conoscenza degli esteri – non ha saputo sfruttare questa possibilità, riducendosi a strumentalizzare l’accaduto e attirandosi così pesanti critiche. Tutte ragioni, queste, che inducono ambo le parti a mantenere un atteggiamento piuttosto prudente nei confronti dei temi di politica estera, i quali non saranno dunque decisivi.

Infine un giudizio sul candidato Romney: controverso e incline alle gaffes, e al di là delle lacune proprio in politica estera, quante e quali carte può ancora giocare? Questi suoi modi di fare possono eventualmente creare un’empatia nei confronti dell’elettorato americano? E quanto conta l’ingresso in scena di Paul Ryan sulla campagna condotta dal ticket repubblicano?

La storia recente ci insegna che un Presidente informale e incline alle gaffes come George W. Bush ha governato un Paese come gli USA per due mandati riuscendo a stabilire una discreta connessione con l’elettorato, superiore persino a quella di candidati repubblicani e democratici anche più preparati di lui. Anche Obama è stato talvolta criticato per essere troppo freddo e distaccato. Una chiave di successo del vecchio Presidente è stata quella di mostrarsi così com’era, attirando le simpatie della gente. Potrebbe essere così anche per Romney, al di là delle lacune nel suo background. Quanto al suo vice: onestamente non credo che la candidatura di Paul Ryan possa aver favorito il candidato repubblicano proprio a causa delle loro diversità. Penso soprattutto alla piattaforma economica del giovane deputato del Wisconsin, nettamente più radicale e ultraliberista. In questo la scelta della sua candidatura è stata dettata da motivazioni politiche e dalla necessità di dover intercettare i voti nell’elettorato più a destra. Sebbene Ryan abbia contribuito a rinfrescare la campagna elettorale e a rinnovarla, non credo affatto che possa essere considerato un game changer. Staremo a vedere quel succederà ed emergerà negli ultimi giorni del mese.

* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)


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