Dieci anni, un carattere timido ma estroso, la fantasia dei cani nordici e la caparbietà dei pastori tedeschi. Veniva da un canile, una gabbia da un metro per un metro, dove abbaiava impazzita come tutti i cani lì raccolti. Era stato immediato sceglierla, liberarla, portarla via con me. Era già quasi adulta, ma non cresciuta, ed era tardi per educarla; al più siamo riusciti a rimuovere qualche lontano terrore, e con noi spesso pareva ridesse quando rincorreva palline da tennis o pezzi di legno e poi si faceva inseguire a rotta di collo con la sua incredibile agilità.
Era alata, lo vedevi nei salti.
Era emotiva e casinara, bastava un niente per eccitarla, e partiva l’abbaio. I rumori la incupivano: i tuoni, le campane, i petardi. Allora cercava noi, lei così muscolosa e potente, e diventava un cucciolo da proteggere dietro il divano.
Nella neve affondava e sbuffava di gioia: le ricordava la Siberia dei suoi avi selvatici. Con i gatti giocava timidamente, ne era succuba, temeva le loro unghiette sfacciate, lei che era esuberante sì, ma fondamentalmente mite.
E ci amava, tutti ci amava. Ce lo dicevano i suoi occhi, gli unici occhi azzurri della famiglia.
Per quegli occhi e per quell’amore oggi l’abbiamo lasciata andare.
Kim, 2002-2012