Molte persone entrano ed escono dai negozi.
Il tram è una bestia il cui intestino mi piace molto vivere ed osservare.
Oggi però rivolgo gli occhi alla strada.
Resto in piedi e fisso un punto al centro del finestrino.
I suoi margini neri e sfuocati incorniciano il mio frame.
Il tram avanza e il mio sguardo resta fissamente puntato al marciapiede sul lato opposto alla direzione in cui viaggio.
La prima cosa che noto è che il mio campo visivo è diviso in più zone dove quella centrale è l’unica ad essere a fuoco. Inizialmente percepisco le persone come macchie di colore, uno stimolo che non riesco ancora a razionalizzare. Una volta giunte al centro le metto a fuoco.
Ora assisto ad una dinamica tanto inaspettata quanto naturale messa in atto dal mio cervello: nel secondo (poco più o poco meno) nel quale il passante è a fuoco, lo giudico.
In più fasi all’interno di quel secondo lo riconosco, lo identifico, lo giudico, lo catalogo e lo archivio. La formulazione di un giudizio mi è inevitabile e continua indiscriminata per ogni passante che attraversa il mio campo visivo: maschio, giovane, grasso, probabilmente depresso; femmina, carina, vanitosa, ha studiato poco; maschio, adulto, elegante, sicuramente snob; femmina, adolescente, guarda molta tv, forse ha un accento marcato, ecc. ecc.
Il gioco sta diventando fastidioso e la cosa che più mi infastidisce è che non posso fermarlo se non distogliendo lo sguardo.
Lo distolgo ora e lo porto all’interno del tram, l’esposizione è sballata, tutto è nero.
Scendo dal tram.
Il gioco è finito ma mi rimane quella insolita attenzione alle dinamiche percettive del mio cervello.
Voglio dare ora una conclusione che deriva dalla mia esperienza di essere un essere umano:
noi non possiamo vedere la nostra faccia con i nostri stessi occhi, se non allo specchio, ma anche allora la visione è limitata.
Dato questo fatto noi siamo portati a vivere sulle facce delle altre persone, sui loro corpi. Abbiamo un’immagine delle nostre espressioni grazie a una ricostruzione approssimativa che ricaviamo dalle immagini delle espressioni altrui, che mettiamo in relazione con la percezione della nostra fisionomia e con i ricordi che di essa conserviamo dagli episodi di autoosservazione (specchi, riflessi, foto, ecc).
Senza gli altri noi saremmo sperduti poichè non potremmo avere coscienza di noi stessi (questo vale ovviamente anche per ogni altra interazione sensoriale). Quando io giudico guardano le persone per strada sto giudicando me stesso cercando di identificarmi grazie ad una relazione semantica con le altre persone. I segni che portiamo addosso, volontari o involontari, sono dei segni di riconoscimento che offriamo, volontariamente o involontariamente, alle altre persone affinché loro e noi possiamo non smarrirci. Su questa dinamica costruiamo la nostra narrazione del sé (v.post precedente), ci raccontiamo a noi stessi, proviamo a sconfiggere le nostre innate paure. Come il consumismo irrompa in tali dinamiche è discorso lungo e amaro.
Consiglio Occhio e cervello. La pscicologia del vedere. di Richard L. Gregory dove si possono trovare descrizioni non personali ma scientifiche della fenomenologia della percezione.
(immagini: frame tratto da "L'uomo con la macchina da presa", Dziga Vertov, 1929; "La sfera", Mauritz Escher, 1921)