OCCIDENTI: L’Ukip in testa nei sondaggi nel Regno (dis)Unito

Creato il 23 maggio 2014 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 23 maggio 2014 in Occidenti, Slider with 0 Comments
di Matteo Zola

da LONDRA – Uno spettro di aggira per la Gran Bretagna, è lo spettro dell’Ukip. Il partito antieuropeista guidato da Nigel Farage si è trovato per la prima volta in testa nei sondaggi. L’incubo che possa vincere alle elezioni europee (in Gran Bretagna si è votato il 22 maggio) ha spinto gli partiti del Regno a un’inedita alleanza. Una campagna di condanna nei confronti dell’Ukip è stata lanciata lo scorso 29 aprile dall’ex-ministro all’Immigrazione, Barbara Roche, esponente del partito laburista, cui si sono subito accodati Nadim Zahawi, esponente di spicco del partito conservatore, e il vice-presidente della Camera dei Lord, il liberale Navnit Dholakia. “La campagna elettorale dell’Ukip va chiamata con il suo nome: razzista” ha dichiarato Roche , “usa le stesse pratiche e le stesse retoriche dei partiti apertamente razzisti ma invece che indirizzarle contro immigrati dall’Asia o dall’Africa, le indirizza verso gli europei”. Quali europei? I romeni e i bulgari, soprattutto, ma anche tutti quelli che dall’Europa meridionale – Italia inclusa – emigrano nel Regno Unito in cerca di lavoro. Malgrado questo fuoco di fila, i primi polls mostrano come l’Ukip abbia di gran lunga superato i risultati delle scorse europee e possa fare il botto alle amministrative, per le quali si è votato lo stesso giorno delle europee.

 Dall’antieuropeismo al “razzismo”?

L’Ukip è un partito fondato nel 1993 da alcuni fuoriusciti conservatori, il suo principale obiettivo è l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La crisi economica, che anche nel Regno ha colpito duro, ha offerto a Farage e ai suoi nuovi argomenti: l’immigrazione anzitutto. Gli stranieri, colpevoli di portare via il lavoro ai britannici o di vivere come parassiti sulle spalle del sistema previdenziale, sono sempre più al centro delle retoriche dell’Ukip. L’obbligo di far entrare bulgari e romeni, scattato nel gennaio scorso allo scadere della clausola transitoria che consentiva a Londra di limitarne l’accesso al mercato del lavoro, è stato vissuto dai britannici come un abuso. Un sondaggio rivelò come la maggioranza della popolazione fosse contrario a quella che riteneva essere un’imposizione.

Più che tolleranza è una questione di soldi

Ma cosa è successo alla tradizionale tolleranza inglese? E’ successo che, in tempi di crisi economica, ci sono cose che al contribuente non vanno giù. Un esempio e qualche dato: il welfare britannico costa 160 miliardi di sterline l’anno, di questi circa 40 milioni (lo 0,00025%) vanno in child benefits all’estero. Sei polacco? lavori in UK? tuo figlio vive con la nonna a Poznan? hai diritto a dei benefit per lui anche se non risiede nel Regno. Il 75% dei child benefits che vanno all’estero sono destinati alla Polonia. Ecco perché i cittadini britannici non vogliono altri “polacchi”, ovvero romeni e bulgari ma anche italiani o spagnoli. Secondo i dati dell’istituto nazionale di statistica il più alto numero di richieste di benefit tra gli stranieri viene da polacchi, spagnoli, italiani e portoghesi. Ecco per Farage e i suoi è stato facile associare i due temi, quello della permanenza nell’Unione Europea e quello dell’immigrazione.

Un programma estremista

L’Ukip non è solo un partito antieuropeista e xenofobo, il suo programma prevede la rimozione della Gran Bretagna dalla Corte europea dei Diritti Umani; il conferimento di maggiori poteri alla monarchia e l’istituzione della fede anglicana a religione di Stato (anche se, secondo il censimento del 2011, solo il 19,9% della popolazione è anglicana) in barba a tutte le altri confessioni cristiane del regno, dai cattolici ai metodisti e presbiteriani. Recentemente il partito è stato al centro di polemiche per il sessismo di certe dichiarazioni: lo stesso Farage ha detto che  non conviene “assumere una donna con bambini”, mentre Godfrey Bloom, candidato alle prossime europee, ha dichiarato che le donne sono “sluts (troie) che si dimenticano di pulire dietro al frigo”.

Dopo questa uscita, Bloom è stato costretto a lasciare il partito, come prima di lui è toccato a Andre Limpitt, che curando la campagna sui social-media dell’Ukip si lasciò andare a più di un tweet anti-islamico, e a William Henwood, che ha paragonato l’Islam al Terzo Reich. Non si tratta però di “singole mele marce”, come sostenuto dal partito, poiché ogni dichiarazione pubblica dell’Ukip è segnata da un evidente pregiudizio verso ogni genere di minoranza. A un’intervista al quotidiano The Guardian, lo stesso Farage ha messo in guardia dal pericolo di avere “romeni ubriachi in giro per le strade”.

La svolta radicale di Cameron

Fin qui gli altri partiti avevano dimostrato una certa tolleranza, anzi, David Cameron – alla disperata ricerca di voti – aveva fatto proprie alcune retoriche dell’Ukip dichiarando di voler dare una stretta all’immigrazione e di voler fare leggi speciali destinate a“contrastare il turismo assistenziale” degli stranieri e a “snellire le procedure di espulsione in caso di accattonaggio”. Il suo partito è uscito dal Partito popolare europeo sedendo tra gli euroscettici moderati, e lo stesso Cameron ha promesso un referendum sulla permanenza del paese nell’UE.

Ancora Cameron, il 21 aprile scorso, in un’intervista rilasciata a The Church, voce della chiesa anglicana, ha detto che la “Gran Bretagna dovrebbe sentirsi più sicura di sé nell’affermarsi nazione cristiana”, dimenticandosi in un paese dove il 32,8% dei cittadini si definisce “non religioso” e solo il 4% va in chiesa. Lo scivolamento dei Tories verso le retoriche antieuropee, tradizionaliste e anti-immigrazione dell’Ukip  non è però il dato il dato più preoccupante: l’ultimo sondaggio, realizzato il 20 maggio scorso dall’istituto YouGov per il Sunday Times, attestava all’Ukip il 31% delle intenzioni voto, contro il 28% dei laburisti e il 19% dei conservatori seguiti, al 9%, dagli alleati di governo liberali.

La spaccatura politica della Gran Bretagna

Il dato è ancora più grave se si guarda alla sola Inghilterra, tradizionale roccaforte dei conservatori, dove l’Ukip è in testa di due punti percentuali con più del 50% dei voti destinato ai due partiti di area conservatrice. Un dato che si ripercuoterà sulla questione scozzese. Il 18 settembre prossimo infatti la Scozia è chiamata a votare per il referendum sull’indipendenza da Londra.

Gli indipendentisti, guidati dal first minister scozzese Alex Salmond, non stanno facendo una campagna di stampo nazionalista. Essi piuttosto propongono un modello sociale basato su equità, welfare e redistribuzione della ricchezza. Un modello antitetico a quello di Londra e lontano anni luce dalle politiche dell’Ukip. Non a caso in Scozia il partito di Farage raccoglie appena il 9% delle intenzioni di voto, mentre i conservatori non sono mai riusciti ad eleggere più di un deputato nelle ultime quattro elezioni.

La Scozia è tradizionalmente social-democratica e guarda, per il suo futuro da nazione indipendente, al modello scandinavo. La causa scozzese è data in crescita nei sondaggi e il favore per l’indipendenza in Scozia cresce di pari passo con l’affermazione dell’Ukip in Inghilterra. I due fenomeni sono legati tra loro e restituiscono la spaccatura sociale della Gran Bretagna, regno sempre più disunito.

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