Occupy this album, l’indignazione entra nei megastore

Creato il 27 aprile 2012 da Nicola Mente

Impacchettato, corredato di codice a barre e di barretta antitaccheggio. “Occupy” continua la sua personale ascesa e si fa brand esplicito a tutti gli effetti, partorendo “Occupy This Album”. La compilation del movimento sarà in tutti i negozi di dischi a partire dal prossimo 15 maggio, e ci porterà in dote 99 brani, sull’onda del famoso slogan “We are 99%”, nato durante lo scorso settembre di protesta newyorkese. Dal raduno di Zuccotti Park è nata una raccolta di collaborazioni importanti, da Ani Di Franco a Tom Morello (ex Rage Against The Machine e Audioslave), da Unkle ai Third Eye Blind, da Mogwai agli Anti-Flag.  C’è addirittura un pezzo del famoso regista Michael Moore, che si prodiga in una cover di Bob Dylan.  La data di uscita coincide con la data d’esordio del movimento di indignazione, che nel 2011 cominciò ad affacciarsi in 50 città spagnole,  in occasione delle elezioni amministrative, per farsi portavoce del disappunto globale di un’epoca in cui i declini assomigliano a picchiate. Sotto i colpi di slogan come “non siamo merce in mano di banchieri e politici”, El Movimiento 15-M (dove 15-M sta proprio ad indicare la data d’esordio) ha poi rapidamente trovato humus fertile  in diverse parti d’Europa, prima di valicare l’Atlantico ed esplodere con la famosa marcia di Wall Street (quella dei 700 arrestati sul ponte di Brooklyn, per intenderci).

Dopo mesi trascorsi ad occupare le prime pagine di tutti i giornali, dopo aver fatto da preambolo per la fase più acuta e critica della crisi, Occupy ha deciso di regalarsi il grande e definitivo salto nel mondo del commercio: l’album avrà un’etichetta definita “temporanea”, la Music for Occupy, ma sarà distribuito da un colosso indie-rock come Razor&Tie, di proprietà Sony. E così, come ogni movimento di contestazione che si rispetti, anche il movimento Occupy potrà ottenere una personale colonna sonora, progettata a tavolino. Perché la musica, si sa, congela o infiamma. Cristallizza, dipinge e dà cornice, dona magìa. Come quando si rincasa attanagliati da quella fame che non può essere placata da una piadina con avanzi di frigorifero, o da uno spaghetto improvvisato. Fame assoluta, fame da parabola biblica. In quei momenti, il ristoro arriva da una playlist, da un impianto stereo, o da un giradischi (per i più fortunati), e tutto prende colore. Colore intenso, o colore sbiadito. Rosso fuoco o grigio antrace, questo non importa. Si seguono suoni e vibrazioni, si insegue un benessere metafisico, come se fosse sufficiente un sottofondo musicale per far sì che tutto possa avere un senso, anche solo per alcuni minuti.  Come in uno di quei documentari degli anni Settanta, che (a fatica) ritagliano pezzi di storia impacchettati in videoclip e ci raccontano la vita di una generazione, l’esegesi di una contestazione e il dipinto della dissidenza. In fondo siamo cresciuti a pane e immagini di rivolta, con quelle immagini in bianco e nero che si accavallano tra una canzone di Bob Dylan e un riff dei Led Zeppelin.

Dopo tanti anni, ecco che la scena della protesta s’illumina sui prototipi di rock metropolitano del nuovo millennio, quello che preferisce i club e i disc jockeys ai grandi prati e agli sterminati campeggi.  Nuovi nomi emergenti come Matt Pless, ma anche grandi mostri sacri degli anni che furono, comePatti Smith, David Crosby & Graham Nash, Joan Baez. Salti approssimativi, e piccoli assaggi dalle contestazioni  di ogni epoca: la Baez per il ’68, i Blondie diDeborah Harry per il ’77. E se non bastasse, in mancanza di John, anche Yoko Ono e il figliastro Sean Lennon.

È possibile che nelle intenzioni del movimento si celi la volontà di costruire un ponte tra questo tipo di contestazione e i grandi movimenti di protesta degli anni dei fiori, attraverso la riesumazione di qualche nome altisonante a mo’ di simbolo. Questo ponte, però, appare piuttosto scricchiolante. Non siamo negli anni Settanta, questo è chiaro: non si canta più col pugno chiuso, si preferisce muoversi convulsamente e non pensare più di tanto a quel che si ascolta, e a quel che si potrebbe pensare. Son cambiati i tempi. Una volta la musica era vera ondata di passione, tesa a veicolare attitudini e passioni, volontà, speranze. Il processo era spontaneo, l’aggregazione pure, e l’esigenza di voler cambiare l’ordine delle cose appariva innata, senza aver bisogno di induzioni o di sponsorizzazioni. In una realtà orfana di 2.0 e social networks, la musica era l’unico collante possibile per accomunare un giovane di Berkeley a uno studente francese, o a un militante politico italiano. La grande band e la grande canzone, il comune denominatore. La voglia di sovvertire, il bisogno di allargare le braccia per creare spazio in un mondo che era diventato troppo stretto. Dinamiche non più possibili, in tempi come questi, ove il singolo è svuotato di ogni consapevolezza artigiana sul proprio destino e in cui la massa è creata sempre meno dall’aggregazione autonoma, e sempre più dal semplice convogliamento per inerzia. Sembra che ci sia il bisogno di creare movimenti sempre più simili a giganteschi involucri vuoti da riempire di numeri, in una realtà in cui ormai è evidente l’assoluta prevaricazione del numero nei confronti della persona.

A ripercorrere a ritroso la via, infatti, ci si accorge che in quegli anni la volontà di rivoluzione a suon di rock non era dettata da una casa discografica, o da un interesse commerciale imposto da un rientro economico per finanziare un movimento, come se fosse un’associazione Onlus, o un Festivalbar qualunque. Nessun marchio registrato, nessuna etichetta, nessun franchising della dissidenza. In quegli anni la musica guidava gli animi, incanalava quella voglia di gridare che ora (inevitabilmente) non c’è più.

Oggi la strada è cambiata, proseguendo senza sosta verso il capitalismo dell’anticapitalismo, con un’operazione commerciale che finge (male) di colorare anfratti vuoti di passione, di coscienza e di consapevolezza di declino.  Alle spalle, una mera questione economica, in favore del “sostegno del movimento”. Quello stesso movimento che ha la forza di firmare un contratto con Razor&Tie, ma che non ha la forza di andare avanti senza il tuo piccolo aiuto.

E così, nel frattempo, il declino prosegue inesorabile. Per accorgersene, basterà entrare in qualsiasi Megastore, tra una Playstation 3, Dvd, e telefoni dell’ultima generazione. Ad osservare con un po’ di attenzione, là in mezzo, coperta di plastica e con un codice a barre, ci sarà anche l’Indignazione.

(Pubblicato su “Gli Altri Online“, il 26 aprile 2012)



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