di Simone Vettore
Ai tempi della Guerra Fredda uno degli indiscutibili capisaldi dottrinali, talvolta recitati come un mantra nei circoli NATO, era che la difesa dell’Europa Occidentale non potesse prescindere dal dominio dell’Atlantico. Tale convinzione derivava in primo luogo da valutazioni di ordine strategico-militare ed, in subordine, di natura politico-economica: per quanto riguarda il primo aspetto uno sguardo ad una carta geografica del periodo è sufficiente a chiarire come, nel contesto globale dei due blocchi contrapposti, l’Europa al di qua della cortina di ferro non fosse altro che un’appendice a stelle strisce affacciata sulla sponda orientale del “laghetto” nordatlantico, una sorta di avamposto militarmente difficilmente difendibile (con armi convenzionali) a causa dell’impossibilità di attuare una efficace difesa in profondità in caso di conflitto contro il Patto di Varsavia. Ragionando in termini di “masse”, infatti, quella eurasiatica posta ad est della linea immaginaria che, riprendendo le parole di Winston Churchill pronunciate nel celebre “Iron Curtain Speech”, andava «da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico», veniva adeguatamente controbilanciata solo da quella nordamericana (Stati Uniti e Canada).
In questa visione dell’Europa Occidentale come “appendice al di là del mare” del Nord America, era proprio l’Atlantico settentrionale, che, ragionando sempre su scala globale, assumeva le caratteristiche del mare chiuso [1], a fungere da fondamentale via di collegamento attraverso il quale far transitare, oltre agli indispensabili rifornimenti bellici, anche merci ed idee.
Ciò ci porta al secondo ordine di valutazioni, quelle di natura politico-economica: l’interscambio commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, a dispetto della peraltro indiscutibile ascesa dell’area del Pacifico, dai tempi delle grandi scoperte geografiche ad oggi non ha fatto altro che crescere ed attualmente i commerci che si sviluppano tra Stati Uniti ed Unione Europea rimangono, in valore assoluto, i più grandi al mondo [2]. La dimensione economica va di pari passo con quella politico-istituzionale: sorvolando sul viaggio andata e ritorno dei valori e degli ideali democratici da una sponda all’altra dell’Oceano (questi ultimi, importati oltreoceano all’epoca dei Lumi, ci vennero restituiti con la II Guerra Mondiale), è evidente come la floridezza dei commerci e delle industrie, la prosperità delle popolazioni che li praticano e la tenuta degli ordinamenti democratici degli Stati che li garantiscono, non possono che procedere assieme.
In altri termini, ammettendo la correttezza di una simile impostazione nella quale esigenze strategico-militari e politico-economiche si saldano in modo inestricabile – benché talvolta non proprio lineare – non appare peregrino, considerato anche il frangente storico in cui vari elementi (crisi economica, ascesa di Cina ed India, rinnovato attivismo russo, etc.) inducono a ritenere che sia in atto una ridefinizione degli equilibri mondiali, effettuare una veloce analisi sull’importanza dell’oceano Atlantico e delle attività che su di esso si svolgono, con un occhio di riguardo per la partita energetica che su di esso si potrebbe ben presto giocare.
Un ottimo spunto di partenza è fornito dalla proposta, formulata da parte del presidente Barack Obama in quel di Bruxelles lo scorso 25 marzo, di rifornire l’Europa di shale gas (del quale gli Stati Uniti diventeranno esportatori) qualora ci si dovesse trovare nella infausta necessità di inasprire le sanzioni alla Russia come punizione per l’annessione de facto della Crimea e dei “torbidi” provocati ad arte, agli occhi delle cancellerie occidentali, in Ucraina orientale. Una simile decisione infatti, nel complesso valzer di minacce e ripicche reciproche, verosimilmente provocherebbe il blocco delle forniture di gas e petrolio russo con ripercussioni non solo per l’export di Mosca ma anche per le bollette energetiche di famiglie ed aziende europee.
Numerosi commentatori si sono pertanto affrettati a sottolineare come le sanzioni caldeggiate da Washington siano, principalmente per l’Europa, una lama a doppio taglio e l’offerta del presidente Obama tutt’altro che disinteressata ma tesa al contrario a “legare” nuovamente agli Stati Uniti un’Europa recalcitrante a seguirli ed a condividere gli oneri della difesa collettiva (l’annoso problema del burden sharing [3]); altri ancora, all’opposto, hanno bollato la proposta come un bluff giacché ci vorrebbero anni prima che le forniture di gas di scisto statunitensi arrivino a coprire l’equivalente quota russa.
È opinione di chi scrive, contrariamente a quest’ultima linea interpretativa, che l’offerta formulata sia seria e da valutare attentamente proprio per la prospettiva temporale di medio-lunga durata che ne sta alla base: l’amministrazione statunitense infatti mette sul piatto una soluzione duratura, inserendola in una più ampia partnership. Washington, non a caso, ha giustamente ancorato l’offerta di gas alla prosecuzione dei negoziati per il TTIP (cfr. n. 2) i quali, se andassero a buon fine, consentirebbero al Vecchio Continente di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico spuntando probabilmente nel contempo, venendo a cadere i dazi doganali, pure un buon prezzo. In altri termini l’occasione potrebbe essere buona per ridare slancio all’asse nordatlantico (e forse anche alla NATO), saldando business ad esigenze di diversificazione/sicurezza energetica e, per estensione, di sicurezza nazionale.
Ma i benefici potenziali non finiscono qui: l’eventuale accordo, imponendo agli Stati importatori (leggasi: agli europei) di realizzare gli indispensabili impianti di rigassificazione, paradossalmente darebbe a questi ultimi un ulteriore grado di libertà sul mercato internazionale del gas. Tale considerazione deriva dall’analisi dalle trasformazioni che stanno interessando a livello internazionale il settore oil & gas e che stanno determinando la “crisi” delle tradizionali pipeline. Contro queste infrastrutture giocano infatti fattori quali gli alti costi di realizzazione, l’opposizione sovente manifestata dalle popolazioni residenti nei territori attraversati dalle condotte, le difficoltà incontrate nell’assicurare la sicurezza “fisica” delle stesse e non da ultimo la tendenza a preferire contratti di acquisto spot (scelta praticamente obbligata, date le oscillazioni nella domanda a causa della crisi economica) rispetto ai consueti (vincolanti) contratti di durata ultradecennale (tipologia che a sua volta si rende praticamente obbligata essendo l’unica in grado di garantire il rientro dagli ingenti investimenti effettuati) [4]. Ma i rigassificatori dovrebbero essere in cima alla lista delle priorità europee non solo perché sono complessivamente più flessibili e meno costosi da costruire ma soprattutto perché (almeno in linea di principio) la loro realizzazione non vincola ad acquistare gas da un unico fornitore essendo al contrario possibile scegliere il più conveniente in base all’andamento delle quotazioni.
L’obiettivo di diversificare i propri canali di approvvigionamento energetico e la possibilità, correlata, di scegliere di volta in volta a quale fornitore rivolgersi, dovrebbero essere argomenti sufficienti, da soli, a convincere i decisori politici circa il ruolo fondamentale che può essere svolto dall’Atlantico in questa cruciale partita e, di conseguenza, relativamente alla necessità di esercitarvi un dominium maris il più assoluto possibile. Infatti, qualora sulle coste europee dovesse sorgere l’auspicata – e vitale – catena di rigassificatori, il Vecchio Continente potrebbe attingere per linee interne (vale a dire lungo rotte sicure) non solo al gas naturale che viene prodotto dagli Stati Uniti ma pure a quello proveniente da numerosi altri Stati affacciantisi su questo bacino: dall’altro storico alleato NATO che è il Canada, che esporta 8,5 miliardi di piedi cubi di gas al giorno [5], a Trinidad e Tobago con il dirimpettaio Venezuela [6], senza dimenticare i numerosi Paesi del Golfo di Guinea e l’Angola, tutti notoriamente grandi produttori e/o detentori di importanti riserve tanto di gas quanto di petrolio.
Il riferimento appena fatto all’olio nero non è casuale: posto che il gas, una volta sottoposto a processo di liquefazione e compressione, risulta più agevole e conveniente da trasportare, non va assolutamente dimenticato il petrolio tanto più in considerazione delle nuove tecniche estrattive che permettono da un lato la produzione di quelli che vengono definiti unconventional oil, dall’altro di migliorare la resa ed allungare la vita dei giacimenti esistenti (come non pensare qui ai campi del Mare del Nord?). Ciò potrebbe significare uno stravolgimento di quelle che sono le consuete “classifiche” del settore: stando ad alcune analisi, infatti, «quattro Paesi mostrano il più alto potenziale in termini di effective production capacity growth (crescita della capacità di produzione effettiva): essi sono nell’ordine Iraq, USA, Canada, e Brasile» [7]. È fondamentale osservare come di essi solo l’Iraq si trovi nel Golfo Persico, regione produttrice di petrolio per antonomasia, mentre gli altri tre siano tutti quanti Stati del bacino atlantico.
Alla luce di quanto sin qui esposto, non è irrealistico immaginare un Atlantico di qui a breve solcato da un numero crescente di petroliere e di navi gasiere e trasformato in uno snodo fondamentale per l’approvvigionamento e la sicurezza energetica del Vecchio Continente. Certo, affinché una simile prospettiva si realizzi è necessaria, da parte europea in primis, anche l’assunzione di nuovi oneri come ad esempio un più deciso intervento per mettere in sicurezza l’area del Golfo di Guinea (il che, a sua volta, implica potenziare il proprio strumento navale), notoriamente infestata di pirati, e nel complesso interessarsi maggiormente alle questioni dell’America Latina. Significa cioè elaborare una strategia ed una politica estera comune riguardo ad aree alle quali tradizionalmente ci si è approcciati in ordine sparso e, soprattutto, spesso e volentieri ricalcando le linee d’azione (e di demarcazione) ereditate dall’epoca coloniale.
Del resto, i lavori di ampliamento in corso al canale di Panama, che una volta conclusi consentiranno il passaggio a navi con capacità sino a 12mila TEU (ovvero in grado di trasportare 12mila container standard da 20 piedi ciascuno) e la probabile ascesa, in termini di numero di transiti e di volumi trasportati, del Passaggio a Nord Ovest, assieme al complesso di motivazioni esposte in sede introduttiva, non potranno che far accrescere l’importanza dell’Oceano Atlantico nel suo complesso ed, al suo interno, dello specifico bacino settentrionale.
Quest’ultimo in particolare, dal ruolo – oscuro quanto importante – di retrovia logistico destinato ad alimentare l’incessante spinta verso Oriente, potrebbe in breve tempo trasformarsi in autentico cuore energetico, commerciale, politico e militare delle rinnovate relazioni euro-atlantiche anche se non sfugge come sia l’Atlantico tout court, a proporsi, attraverso le vecchie e le nuove vie di comunicazione, come un formidabile trampolino di lancio verso i mercati ed i teatri operativi globali.
* Simone Vettore è Dottore in Storia Contemporanea (Università di Padova)
[1] Il precedente storico spesse volte rievocato è quello del Mare Nostrum ai tempi dell’Impero Romano; al riguardo, per quanto datate, restano di grande attualità le riflessioni di G. Fioravanzo, Geografia e strategia, in Atti del XVI congresso italiano, Padova – Venezia, 20 aprile 1954 (a c. di E. Bevilacqua), Faenza, 1956, pp. 817-24.
[2] Gli indicatori potrebbero ulteriormente migliorare, a detta di molti esperti, qualora dovesse venir siglato il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), ovvero l’accordo di libero scambio tra USA ed UE, in vista del quale nel corso del 2013 si sono svolti i primi incontri. Vedi http://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/ttip/about-ttip/.
[3] Il richiamo alla questione delle spese nel comparto Difesa è stato inoltre da molti visto, ed il timing è in effetti sospetto, come una tirata d’orecchi ai governi europei che sempre più numerosi si stanno defilando dal costoso programma F35.
[4] Si veda l’articolo di F. Rendina, Stop al gasdotto Tgl e all’hub del gas italiano, Il Sole 24 Ore, 17.04.2014.
[5] Dati forniti dalla Canadian Association of Petroleum Producer; secondo la medesima associazione il Canada possiede riserve di gas (a parità di consumi correnti) per i prossimi cento anni ed oltre; vedi http://www.capp.ca/library/statistics/basic/Pages/default.aspx. Probabilmente nemmeno conosciute con precisione le possibili riserve presenti nell’area artica.
[6] I rapporti tra questi ultimi due non sono idilliaci; alle dispute sui giacimenti offshore si sono aggiunte le differenti vedute nelle rispettive politiche di esportazioni energetiche; se il Venezuela (con Chávez prima e Maduro poi) si è contraddistinto per il suo antiamericanismo, Trinidad e Tobago è stato a lungo (ossia fino alla shale gas revolution) il principale fornitore di gas di Washington. La perdita del fondamentale cliente nordamericano ha obbligato T&T a ricercare sbocchi in altri mercati (Cina ed Europa); vedi Maya Santamaria, Il gas naturale di Trinidad e Tobago, Geopolitica Rivista, 10.08.2013.
[7] Vedi A. Rosato, Shale gas e rivoluzione energetica: l’età del petrolio non è ancora finita, Limesonline, 21.05.2013. Circa il Brasile è bene precisare che difficilmente i ricchi campi offshore di Sapinhoá e Campos entreranno nel sistema di forniture che si va qui prospettando dal momento che, a causa dei consumi interni in vorticosa crescita, si è addirittura costretti a ricorrere all’import (fondamentale ad es. il gas boliviano che arriva tramite il gasdotto GTB).
Photo credits: GIIGNL. Per saperne di più consulta il Report “The LNG Industry in 2013“
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