Stasera tocca appunto agli esordi, e, non potendo purtroppo seguire tutte e tre le serate, decido di buttarmi deciso sulla nostalgia canaglia e arrivo a Tufnell Park in largo anticipo, giusto in tempo per gustare il colpo d’occhio tra la disciplinatissima fila di ultratrentenni nerovestiti davanti al Dome e il festival del disagio umano che staziona di fronte al pub di fianco – anche il più sudicio fan dei Goatwhore verrebbe messo in difficoltà da una congrega di cinquantenni working class decise a celebrare San Patrizio con tutti i crismi vomitandosi sulle tette alle 7 di sera. Lasciati i britannici alle loro miserie, giro d’obbligo al banchetto del merchandise e un paio di birre per ingannare l’attesa. Che l’evento non sia solo un concerto ma una sorta di manifestazione di orgoglio nazionale lo si nota anche dalla quantità di norvegesi presenti (parecchi sembrano anche estranei al genere e abbastanza spaesati in mezzo a sto mare di barbe e cuoio) e dall’organizzazione perfetta della serata.
I Vulture Industries attaccano puntualissimi davanti a una sala ancora semivuota. Ammetto di essere partito prevenuto, dato che in media ormai sotto l’etichetta “avantgarde” è passata tanta di quella merda che al solo sentire la parola metto mano alla pistola. Invece tutto sommato si fanno apprezzare, hanno comunque un suono abbastanza personale e dimostrano di saper tener bene il palco buttando giù cinquanta minuti di prog metal sui generis, ombroso, teatrale e tirato. Il cantante (un improbabile sosia di Carlo Lucarelli in giacchetta di velluto e farfallino) a tratti chiede un po’ troppo alle proprie corde vocali ma compensa con tonnellate d’entusiasmo e riesce a estorcere un soffertissimo accenno di headbanging perfino a Gaahl, che si aggira fra il pubblico con l’inimitabile faccia di legno che l’ha reso famoso al tempo delle scampagnate infernali coi giornalisti di Vice. Promossi per l’impegno.
Dopo il cambio di palco più veloce a cui abbia mai assistito, nel buio totale partono le note dell’intro di 793 (Slaget om Lindisfarne) e basta meno di un minuto per farmi regredire di colpo all’adolescenza. Non ci sta un cazzo da fare, per quanto ami gli ultimi album degli Enslaved, si tratta comunque di un amore ragionato, adulto, di testa. Qui invece la botta è tutta emotiva – come promesso, il set gira esclusivamente sui primi quattro album (con ben due ripescaggi da Hordanes Land) ed è un sunto di come tutto il viking metal suonerebbe in un mondo ideale in cui Finntroll, Ensiferum ed abominii del genere non sono mai esistiti – armonie secche ed essenziali come una piattonata in faccia e pezzi di quindici minuti che sembrano durarne cinque, muri di suono implacabili nelle parti veloci e un groove assassino in quelle più lente, giusto per ribadire che la Vera Vita Vichinga non era tutta razzie, grigliate e allegre bevute ma piuttosto un’esistenza grama strappata con le unghie a una terra tanto maestosa quanto ostile