Oggettivita’ e intersoggettivita’

Creato il 08 gennaio 2016 da Conflittiestrategie

Vi proponiamo la terza parte del saggio di La Grassa sulla teoria dello squilibrio che entrerà a far parte di un prossimo libro. A chi ha già letto il testo “La realtà è assenza (in squilibrio incessante)”, pubblicato in formato elettronico su Amazon, ed il proseguimento di quel lavoro qui (“Sempre in coda al flusso reale…”), non sfuggirà questo ennesimo passo in avanti verso la descrizione di quella dinamica oggettiva che determina la conflittualità e l’instabilità ad ogni livello sociale. Essa non è più la lotta di classe, come credono molti marxisti rimasti indietro, ma l’inarrestabilità del flusso squilibrante del reale che scuote in continuazione il mondo nel quale ci troviamo immersi.

Buona lettura.

OGGETTIVITA’ E INTERSOGGETTIVITA’

1. Tra coloro che hanno ragionato in merito a tale questione e hanno optato (o creduto di optare) per la prima, alcuni hanno sostenuto un’effettiva oggettività; mentre altri, del tutto inconsapevolmente a mio avviso, hanno di fatto propugnato un’intersoggettività mascherata dietro l’elevazione a “feticcio” di quest’ultima. Ad es., anche la “lotta di classe”, cui si riferiva Althusser (cui diamo pure molti meriti per lo svecchiamento del marxismo), sembrava qualcosa di superiore ad ogni volontà soggettiva, una specie di demiurgo del reale, che procedeva per conto suo, coinvolgendo i soggetti in lotta. In realtà, non era così, poiché non esiste lotta senza i due lottatori, quindi senza due soggetti (collettivi) in combattimento. Althusser aveva tentato di superare il problema sostenendo che questi due non entravano in campo già bell’e pronti, come due squadre di calcio, bensì andavano formandosi nella lotta. Secondo me ha così ulteriormente peggiorato la sua concezione.

Se si sostiene una reale oggettività, come mi sembra indubbio abbia fatto Marx, i ruoli ricoperti dagli individui (e gruppi sociali) e le funzioni da questi svolte preesistono a individui e gruppi. Il fatto che ruoli e funzioni debbano trovare i soggetti che li occupano e le esercitano fa sì che essi siano i loro portatori. Nel loro portarli, i soggetti si trasformano in agenti con le loro caratteristiche individuali; queste ultime non consentono però di trasgredire per l’essenziale ruoli e funzioni formatisi proprio per dinamiche sociali “storicamente determinate”. In definitiva, possiamo dire che le “squadre” (classi), nel pensiero di Marx, sono già formate da processi oggettivi che strutturano una data rete di rapporti sociali (in particolare quelli di produzione, considerati “base economica” della società). I giocatori delle due “squadre” mutano ma ognuna esiste già con una sua precisa caratterizzazione. Le classi, insomma, si formano mediante processi che precedono la loro lotta; e sono questi processi a creare le condizioni di innesco dello scontro. Certamente i gruppi di agenti, che entrano nell’agone della politica (strategie del conflitto), sono composti in modo eterogeneo da individui appartenenti a diverse categorie di ruoli e funzioni. Tuttavia, ruoli e funzioni esplicano pur sempre un’influenza non marginale sull’attività dei gruppi politici; e anche sulle divergenze che generalmente li attraversano.

In definitiva, l’althusseriana “lotta di classe” è stato un espediente di scarsa riuscita se voleva delineare un’oggettività dei conflitti intersoggettivi. Nella sua concezione, sono di fatto i soggetti che lottano a formare le classi; siamo dunque in piena intersoggettività. Inoltre, non si capisce perché queste classi vengano di fatto ridotte a due e in antagonismo irriducibile. Nemmeno si comprende perché la lotta tra le due condurrebbe al mutamento storico della formazione sociale capitalistica; e proprio in direzione del comunismo. Per Marx ciò sarebbe avvenuto a causa di una specifica dinamica oggettivamente intrinseca al capitalismo. Se si abbandona la prospettiva marxiana, quale altra motivazione non meramente soggettiva si può attribuire al conflitto? O pensiamo alla “volontà di potenza” (quale impulso alla supremazia), che dovrebbe però allora essere considerata carattere precipuo della natura umana. Oppure diamo priorità alla necessità di alimentarsi con altri esseri vitali, così come avviene per tutte le specie animali (le specie vegetali si nutrono pure di elementi minerali, inorganici); con l’unica differenza che nell’uomo tale alimentazione non è solo quella di cibo materiale.

In ogni caso, la lotta spinge all’alleanza di dati gruppi contro coloro che vengono considerati nemici per eccellenza; e nei casi di acutizzazione estrema del conflitto, si possono venire formando due schieramenti contrapposti. Gira e rigira, in tale conflitto – che viene fra l’altro considerato nel suo aspetto dualistico, estremamente semplificato – non esiste effettiva oggettività esterna e al di sopra dei soggetti in esso implicati. La lotta resta pur sempre di carattere intersoggettivo; ed è essa, in definitiva, a determinare il movimento sociale.

Non è questa, a mio avviso, la concezione marxiana, in cui vi è senza dubbio una visione semplificata, dualistica, dello scontro sociale. Tuttavia, Marx si pone nell’ottica di un meccanismo oggettivo, quello che i pseudomarxisti hanno spesso trattato quale alienazione dell’uomo. E almeno da questa banalità Althusser si è ampiamente distanziato, salvandosi dagli sdilinquimenti del cosiddetto “umanesimo marxista”. Vediamo un po’ il ragionamento di Marx.

2. E’ notorio che egli prende la sfera economica quale “base” della società sulla quale si ergono poi le sovrastrutture politiche e ideologiche. Non vi è affatto uno stretto determinismo, ma indubbiamente tale sfera, in sostanza quella produttiva, è considerata la principale e strutturante la società complessiva. Marx non parla della produzione in quando semplice processo tecnico ed organizzativo; egli prende invece in esame i rapporti sociali detti appunto di produzione in quanto intelaiatura portante del modo di produzione, che è il nocciolo essenziale della società o formazione sociale. Del modo di produzione – incardinate nella sua rete di rapporti di forma storicamente specifica – sono parte integrante le forze produttive (oggettive, cioè i vari mezzi di produzione, e soggettive, le capacità lavorative dei soggetti produttori), il cui sviluppo è senz’altro elemento assai dinamico e di mutamento dei modi di produrre (che non c’entrano nulla, sia chiaro, con le modalità produttive, essendo forme peculiari dei rapporti sociali esistenti nella sfera in questione).

In Marx, gli individui, i soggetti umani, non sono quelli empirici, concretamente esistenti con le loro singole particolarità. Egli li tratta come determinazioni dei rapporti produttivi in questione. Già nella Prefazione a Il Capitale è assai preciso in merito; e semmai dice, en passant, che talvolta detti soggetti possono elevarsi al di sopra di queste loro determinazioni, ma non sfuggire ad esse. In realtà, quindi, gli individui sono maschere sociali, vengono considerati per i ruoli (le “caselline”) che occupano in quanto ad essi assegnati dal modo di produzione specifico di quella data epoca storica della società.

All’inizio del Manifesto del ’48, Marx afferma che tutta la storia è storia di lotte di classi. Egli ne indica sempre due fondamentali e fra loro antagoniste in quanto dominante e dominata. Esse sono definite tenendo appunto conto della priorità della sfera produttiva nell’evolversi della formazione sociale; e sono contraddistinte dalla proprietà o meno dei mezzi di produzione: proprietari di schiavi e schiavi (che sono produttori e mezzi di produzione nel contempo), feudatari (proprietari della terra) e servi della gleba, mastri artigiani (proprietari della bottega) e garzoni, capitalisti (proprietari di tutti i mezzi di produzione) e operai, ecc. Detta proprietà o meno dei mezzi produttivi caratterizza in definitiva le due classi antagoniste; e l’individualità dei loro componenti è semplice accidentalità rispetto alla classe cui sono assegnati in base a tale connotato (“storicamente determinato”).

La proprietà (potere di disporre) dei mezzi produttivi è già un elemento oggettivo che precede ogni conflitto tra i due soggetti antagonisti (proprietari e non proprietari). La lotta tra i due non crea la proprietà o l’assenza di proprietà; potrà al massimo variare la distribuzione di tale proprietà ed entro dati limiti di variazione. E’ la proprietà (sua presenza per una classe e assenza per un’altra) il carattere che definisce le due “squadre” in competizione antagonistica; proprio come se esse fossero già formate, contrariamente a quanto Althusser sosteneva. Al massimo tali squadre possono cambiare alcuni dei loro giocatori (che da proprietari diventano non proprietari e viceversa). Deve però subentrare la competizione tra proprietari – ad es. con il processo di centralizzazione dei capitali nella moderna società – che altera la composizione delle due “squadre”. Vi è tuttavia, un altro fattore di tipo oggettivo, estrinseco alla “lotta di classe”, fattore che viene prima di quest’ultima, la mette in moto e la spiega. Vediamo.

Marx accetta dai classici la teoria del valore dei beni prodotti in quanto lavoro in essi incorporato. Tale lavoro, pur essendo di varia complessità (e, dunque, qualità), viene sempre ridotto a una data quantità (il lavoro complesso è multiplo di quello considerato semplice, quello base in ogni particolare epoca storica). L’uomo è l’unica specie animale realmente in grado di produrre più di quanto è necessario al suo sostentamento; il prodotto è variabile e in aumento tendenziale con il passare del tempo e delle generazioni. Inoltre, l’uomo è animale che fabbrica strumenti e accresce la produttività del lavoro. Quindi, pur ad un valore (lavoro incorporato) costante, la quantità di beni prodotti cresce. E non semplicemente cresce la quantità, ma pure la loro varietà poiché l’uomo moltiplica i suoi bisogni oltre lo stretto necessario del vivere animale.

Indichiamo come plusprodotto la quantità e varietà dei beni al di sopra della sussistenza (di carattere storico-sociale e non certo soltanto biologico); anch’esso cresce tendenzialmente nel corso dell’evoluzione della società umana. Per semplicità, denotiamo con n la quantità del lavoro necessario a produrre i beni che costituiscono il sostentamento storico-sociale degli esseri umani, e con m il pluslavoro incorporato nel plusprodotto. Ovviamente, plusprodotto e pluslavoro sono fra loro in correlazione diretta; indubbiamente, però, con l’aumento della produttività del lavoro (evoluzione delle tecniche e dell’organizzazione dei processi produttivi/lavorativi), la quantità dei beni prodotti cresce a parità di n + m (lavoro complessivo incorporato nel prodotto totale); e anche lo stesso pluslavoro (m) può rappresentarsi in quantità crescenti dei beni di cui consta il plusprodotto.

Nella teoria marxiana, mi sembra chiaro che la quantità di lavoro costitutiva del valore di ogni bene prodotto è indipendente dall’interazione tra soggetti umani; non dipende certo dall’intersoggettività conflittuale (ad es. la “lotta di classe”), ma è un’oggettività autonoma rispetto a quest’ultima per quanto, ovviamente, dipenda dal lavoro speso dai soggetti per produrre ogni dato bene. Tale spesa di lavoro, insomma, viene – dal punto di vista logico – prima della “lotta”; quest’ultima serve semmai a definire, nella somma lavorativa complessiva, quale parte rappresenta n (lavoro necessario alla sussistenza dei produttori) e quanto m (il plusprodotto che va alla classe dominante, proprietaria dei mezzi produttivi).

3. Abbiamo adesso tutto quanto ci serve a comprendere meglio i meccanismi della società moderna, quella detta capitalistica, in cui si generalizza la produzione di beni nella forma di merci fra loro scambiabili. Potrebbe esserci anche scambio di merce contro merce (baratto); tuttavia, nella società capitalistica lo scambio è mediato dal denaro (nelle sue diverse figure monetarie) che funge da equivalente generale. Ciò rende enormemente più agevole e generalizzato lo scambio dei beni in quanto merci.

In detto scambio si afferma l’equivalenza delle merci passate di mano. Questa è una legge oggettiva, nel pensiero marxiano, non dipende certamente da una interattività conflittuale tra gli scambisti. E’ ovvio che sono in gioco due soggetti, altrimenti vi sarebbe l’acquisizione personale e l’autoconsumo. Questo è il comportamento di Robinson, che in effetti non presuppone il mercato, il quale semmai segue in quanto incontro tra i vari Robinson; ognuno d’essi ritiene di avere prodotto fin troppo di un determinato bene, per soddisfare il suo bisogno di questo, e dunque lo scambia con altri beni (di altri Robinson) per ampliare il ventaglio dei suoi consumi. In Marx (come nei classici), il mercato precede ogni possibilità di soddisfacimento dei bisogni. Il mercato è rifornito tramite la produzione di beni che sono merci fin dal momento del loro apprestamento; sono quindi già merci in potenza e poi lo sono in atto una volta avviate al luogo della loro vendita.

In definitiva, il mercato detta le sue leggi; in questo senso Smith parla di “mano invisibile”, che orienta il comportamento dei produttori. In Marx, fino a questo punto, non c’è grande diversità da Smith. Che cos’è infatti il “feticismo della merce”, di cui parla subito nel primo capitolo della sua opera fondamentale? Non è l’alienazione (del produttore nel prodotto, distaccatosi ahimè da lui, dalla sua personalità, che per ciò stesso “soffre”) come pensano certi filosofi, in particolare quelli che credono d’essere marxisti e non capiscono nulla del pensiero marxiano. La merce è un “feticcio” (un oggetto/idolo cui si attribuisce un potere magico e superiore all’umano), che si impone ai soggetti suoi produttori. E s’impone tramite questa legge oggettiva, indipendente dalla volontà dei produttori: la legge dello scambio tra equivalenti, cioè tra prodotti/merce che debbono avere lo stesso valore, essere costati la stessa spesa di lavoro. Poi, subentra semmai il conflitto tra gli scambisti (l’intersoggettività) che altera tale equivalenza a favore di uno dei due; ma l’alterazione ha sempre come punto di partenza, come sua base oggettiva, l’equivalenza dei tempi di lavoro, cioè dei valori delle merci. Questo è il carattere di “feticcio” delle stesse, cui si devono inchinare gli scambisti pur nella competizione reciproca.

Una volta arrivati a questo punto, il gioco è già stabilito con le sue regole di ferro a causa dei processi storici che hanno condotto alla liberazione di tutti gli individui umani da ogni vincolo di schiavitù o servaggio, dividendoli tuttavia in una minoranza che ha la proprietà dei mezzi produttivi ed in una maggioranza che ne è priva. Quest’ultima come fa a vivere? Come può ricongiungersi con tali mezzi senza i quali non può riprodurre la sua esistenza? Ha quanto serve a rendere effettivamente produttivi quei mezzi di proprietà altrui; ha la sua capacità di lavoro, manuale e intellettuale, direttiva ed esecutiva, ecc. Non può però fornirla direttamente alla minoranza proprietaria, perché da questa è nettamente separata dalla libertà personale dei suoi membri, libertà che in tal caso rischia di tradursi in condanna a non poter sopravvivere. C’è però il mercato; qui si può vendere anche la capacità di lavoro (la forza lavoro). Basta rispettare l’equivalenza suddetta. La forza lavoro non ha valore diretto, non è costata spesa di lavoro. Si aggira l’ostacolo: esiste la spesa lavorativa per produrre i beni indispensabili alla sussistenza (storico-sociale, non biologica) dei lavoratori (produttori). Il gioco è fatto.

La forza lavoro, in quanto merce, viene pagata al suo valore; il lavoratore riceve quanto è necessario alla sua riproduzione di essere vivente in una determinata fase storica della società (capitalistica). Questo necessario è per l’appunto una data spesa di lavoro, avvenuta in precedenti processi produttivi che hanno messo capo ai beni facenti parte del pacchetto di sussistenza del possessore e venditore di forza lavoro. L’essere umano eroga più lavoro di quanto non sia necessario a produrre i beni per vivere e riprodursi. Una volta che la forza lavoro sia stata acquisita tramite il pagamento di un prezzo (salario), corrispondente al lavoro incorporato nei suddetti beni indispensabili alla vita dei lavoratori (e produttori), essa sviluppa nel processo lavorativo, che sostanzia la produzione, una quantità di lavoro supplementare (pluslavoro), rappresentante il “di più” di valore (plusvalore) del prodotto rispetto a quello dei mezzi di produzione utilizzati e consumati. Del plusvalore si appropria chi fornisce detti mezzi di produzione (e la terra), cioè il loro proprietario che per ciò stesso gode del profitto (e della rendita per la terra).

Anche per questa via si riscontra il feticismo che si appiccica alle merci. In questo caso, si tratta di una merce del tutto particolare, la forza lavoro o capacità lavorativa. Essa viene venduta (dal lavoratore) e comprata (dal capitalista proprietario) al suo valore/lavoro. La legge del valore si afferma oggettivamente, indipendentemente da ogni volontà e decisione degli scambisti, si impone a tale volontà e decisione. L’oscillazione del prezzo (salario) attorno al valore è processo dipendente dai rapporti reciproci tra quantità domandata e offerta; così come per ogni altra merce. E questa indipendenza del prezzo della merce dalle decisioni soggettive dei due scambisti non comporta alienazione di nessuno dei due; può comportare a volte arricchimento di entrambi. Tutto dipende dai metodi del plusvalore relativo, uniti ad un ampliamento della produzione, con possibile invenzione di nuovi prodotti ed eventuale crescita della domanda di forza lavoro; problemi su cui qui sorvolo. Tuttavia l’arricchimento, almeno potenzialmente, non è detto debba esserlo solo in termini strettamente materiali. L’aumento del profitto non è semplice accrescimento della ricchezza, il capitalista non è un Arpagone. Se sale il salario, migliora il tenore di vita dei lavoratori, anche in tal caso non necessariamente limitato al suo lato materiale, bensì pure culturale (in linea di principio almeno). In ogni caso, l’alienazione, l’estraneazione (da sé), non c’entra molto con l’analisi marxiana della merce; né in generale (per i prodotti del lavoro) né per quanto concerne quella merce particolare che è la capacità lavorativa umana (intellettuale, manuale, ecc.).

Ovviamente, nella compravendita di forza lavoro sussiste pure il conflitto tra le due schiere di scambisti; e quello che viene detto salario (espresso nel tempo di lavoro per produrre i beni che questo acquista) oscilla allora al di sopra e al di sotto del suo valore non solo in base all’andamento della domanda e dell’offerta di tale merce, bensì pure per il conflitto in questione. Tuttavia, la media, il punto base attorno a cui la lotta provoca l’oscillazione del salario è in ogni caso il valore della forza lavoro (calcolato indirettamente come già detto). Anche in tal caso, dunque, l’oggettività del valore di scambio della forza lavoro viene logicamente prima del conflitto tra i due scambisti, prima di quella che viene detta lotta tra capitale e lavoro, quasi sempre semplicisticamente confusa con la lotta di classe, quella che in Marx non conduceva a mere oscillazioni salariali attorno al valore (legge oggettiva dello scambio), ma si riferiva al ben più gigantesco e generale combattimento tra due raggruppamenti sociali opposti per il superamento della formazione sociale capitalistica.

E – guarda caso – tale lotta trasformativa dei rapporti sociali (di produzione) aveva come passo antecedente un processo oggettivo: l’estraneazione progressiva dei proprietari dalla direzione dei processi produttivi e la formazione in questi ultimi del corpo dei “produttori associati” (“dal dirigente all’ultimo giornaliero”). Sarebbe tale processo a creare – secondo quanto pensava erroneamente Marx – la base sociale dell’espropriazione dei capitalisti e la proprietà (potere di disposizione) collettiva dei mezzi di produzione da parte di tale corpo dei produttori associati (“lavoratore collettivo cooperativo” come l’ho definito io). Il vero conflitto intersoggettivo sarebbe nato intorno alla conquista e poi distruzione della macchina statale borghese, l’organo d’ultima difesa dei proprietari resi estranei alla produzione, divenuti semplici rentier (ad es. azionisti). Come si constata perciò facilmente, in Marx vi è sempre un processo oggettivo che precede, e dunque fonda, l’intersoggettività dei contendenti, degli schieramenti in contesa. Sia se questa è semplicemente sindacale – con oscillazione del salario attorno al valore della forza lavoro – sia se mira invece alla trasformazione della società capitalistica, cioè in definitiva della sua “base economica”, del suo “nocciolo strutturale interno” (i rapporti sociali di produzione), tramite abbattimento dello Stato borghese, ultimo difensore della proprietà (non collettiva).

4. Quanto ho scritto finora può forse essere apparso noioso, lo comprendo. Tuttavia, diciamo intanto che nessuno oggi capisce più che cosa ha affermato Marx. Intendiamoci bene: so benissimo che di ogni pensatore si possono dare interpretazione diverse, ma entro certi limiti tollerabili. Oggi a Marx vengono attribuite castronerie immani, frutto della mente “debole” di comunisti in forte ritardo o di avversari di ignoranza abissale. Ricostruire l’alveo entro il quale possono fluire interpretazioni sensate del suo pensiero è pur sempre, a mio avviso, opera da compiere e sulla quale insistere. Vi è tuttavia un motivo ben più fondamentale per il quale ho affrontato certe argomentazioni. Volevo mostrare che in Marx vi è – più o meno consapevolmente – una fondazione oggettiva delle sue implicazioni teoriche. Quando trattiamo di politica – nel suo senso preciso di sistema di mosse inerenti ad una determinata strategia di conflitto mirante alla vittoria e alla conquista di una supremazia – esuliamo dalla base oggettiva; parliamo del conflitto tra due o più soggetti, prendiamo in considerazione le mosse strategiche di ognuno dei contendenti avendo presente che esse provocano varie reazioni negli altri. Il conflitto è sempre manifestazione di intersoggettività, l’oggettività non viene affatto in evidenza. Ed è normale che sia così a tale livello di analisi e di interpretazione della “realtà”; quella che costruiamo noi, con il massimo realismo di cui siamo capaci e per le nostre esigenze d’azione (o di inazione, se del caso), ma comunque sempre limitato dalla nostra necessità di fissare, dividere in parti e strutturare ciò che è per sua essenza fluido e disorganicamente in moto: la realtà, insomma, quella effettiva e non conoscibile in questa sua caoticità.

Non ripercorro qui le tappe del mio modo di pensare da ormai vent’anni a questa parte; e soprattutto in questi ultimissimi. Ne ho parlato a iosa. Ricordo solo che ho messo in luce gli errori di previsione marxiani, ho dunque abbandonato l’idea che la sfera produttiva sia decisiva per la formazione della società e che sia centrale, nell’indagine di quest’ultima, la proprietà dei mezzi di produzione; fondamentale inoltre ai fini dell’individuazione delle classi, dal cui antagonismo risulterebbero i successivi andamenti della storia del capitalismo e della sua trasformazione in socialismo e poi comunismo. Secondo il mio punto di vista, sfera economica, politica e ideologico-culturale si intrecciano nel dar vita alla (da noi costruita) struttura e dinamica della formazione sociale. Non è decisivo sapere chi ha o non ha la proprietà dei mezzi produttivi, bensì comprendere il conflitto strategico, l’antagonismo (quasi mai duale) tra gruppi sociali nutrito dalla politica nel senso sopra indicato.

Il conflitto strategico è comunque una tipica manifestazione dell’intersoggettività. La “lotta di classe” – modificata in lotta tra più di due soggetti; anche se poi possono raggrupparsi, nel momento cruciale dello scontro, in due schieramenti nettamente contrapposti – è in un certo senso il “motore della storia”. Tuttavia, come nelle auto (o aerei o altri mezzi in movimento) e anche nei macchinari, ecc., il motore deve essere contenuto in “qualcosa” che lo porta e “sorregge”; e deve esserci il meccanismo di accensione, il carburante per l’alimentazione, ecc. ecc. Se poi pensiamo che, nel conflitto tra individui e gruppi sociali, tale motore è come fosse costituito di parti tra loro in urto e frizione più o meno intensi (mentre invece nei veri motori le diverse parti sono in “organizzata cooperazione”), la questione si complica ulteriormente. Non ha senso trasformare la lotta tra soggetti in una entità superiore a questi ultimi. Si tratta in realtà dello scontro tra “agenti in campo”; il processo messo in moto è semplice risultato dell’intreccio tra le strategie poste in essere da essi per combattersi. Nel conflitto nulla vi è che lo trascenda, che lo spieghi come qualcosa di effettivamente oggettivo, qualcosa che non può non verificarsi. Esistono dei soggetti (formati da diversi individui o gruppi sociali fra loro alleati) che si pongono in contesa più o meno acuta; questo è quanto si può constatare, e nulla di più.

Per andare all’oggettività, dobbiamo ipotizzare una realtà indipendente, autonoma, dai soggetti in essa immersi, una realtà che li provoca e li spinge ad affrontarsi, perfino se essi invece recalcitrano, vorrebbero evitare ogni conflitto o almeno smorzarlo. Niente da fare, l’antagonismo è d’obbligo, inevitabile. E alla fine si manifesta in modo più o meno violento. A volte lo si ammorbidisce, si riesce perfino a spegnerlo o a farlo sembrare tale; è semplicemente rinviato, si riaccende in tempi magari assai lunghi. Abbiamo due strade fondamentali per sviluppare tale ipotesi.

Possiamo immaginare d’essere una sorta di specchio immerso nel flusso che è la vita, intendendo questa in senso ampio, riferendoci all’intero svolgimento degli eventi nel cosmo. E’ evidente che lo specchio non può riflettere tutto; ed è inoltre uno specchio deformante. Man mano che la società umana si è andata sviluppando, si è dotata di sempre nuovi strumenti, ha quindi allargato l’ambito del rispecchiamento e ha continuamente tentato di correggere le deformazioni, in genere producendone di nuove e diverse. Qualcuno crede alla possibilità, con l’andar del tempo, di arrivare via via più vicini alla rappresentazione della vita (nel senso inteso), ampliando inoltre sempre più l’ambito della stessa. Qualche altro pensa che conosciamo progressivamente ulteriori parti di questa vita, correggendo pure le deformazioni, senza però avere alcuna certezza che ci stiamo avvicinandosi ad una rappresentazione piena e non deformata; non si cesserà quindi mai di conoscere nuovi orizzonti e di modificare quanto è deformato. In entrambi questi modi di intendere la conoscenza, si accetta in ogni caso l’idea che noi, essendo nella realtà del flusso, la riproduciamo sia pure imperfettamente; o quanto meno ne costruiamo immagini che, per quanto sempre deformate, sono saldamente ad essa ancorate.

5. La mia ipotesi è piuttosto diversa. L’ho spiegata nello scritto sul “flusso reale inconoscibile” (e in altri) e non mi dilungherò molto. Ritengo detto flusso inconoscibile – e quindi il preteso rispecchiamento e la costruzione di immagini lo sfiorano soltanto – per un motivo molto semplice: continuiamo a stabilizzarlo, ivi comprese le sue supposte direzioni di svolgimento, convinti di riuscire così a rappresentarlo mediante un rispecchiamento sempre migliore. La realtà è invece da me ipotizzata fluida, caotica, in movimento continuo e casuale; non dunque fissabile per momenti discreti e per sequenze “dinamiche” (in effetti, cinematiche) precisamente orientate, sia pure in base a calcolo probabilistico. Per di più, la dividiamo mediante opportuni metodi in parti, supponendo poi ch’essa sia rappresentata dalle molteplici relazioni tra queste. In definitiva, costruiamo strutture il cui movimento è il mutamento delle relazioni tra le parti, sicuri o quasi che si tratti di un andamento sostanzialmente prevedibile.

Nell’analisi del mondo, anche quando prendiamo atto di un movimento caotico, lo supponiamo quale disordine nelle relazioni tra le parti, che è comunque possibile individuare e calcolare perfino matematicamente. Non possiamo non comportarci così perché altrimenti non sapremmo agire, muoverci nel flusso reale. Secondo quanto penso, quest’ultimo è invece una sorta di liquido senza parti e caotico, con scorrimento continuo e non prevedibile con assoluta precisione (se non temporaneamente); esso travolge e sconvolge quanto è immerso in lui. Noi ci siamo in mezzo e ne siamo continuamente squilibrati, cadiamo, ci rialziamo e ricadiamo, ci capovolgiamo in continue capriole. Per darci un minimo di stabilità, indispensabile ad agire con un qualche senso, ricorriamo allora a due fondamentali strumenti: la teoria (dai suoi primitivi caratteri empirici rudimentali fino alla maggiore raffinatezza possibile) e la costruzione di sistemi ideologici, la messa in opera di istituzioni, apparati, e quant’altro. Non insisto su questo punto, avendolo già trattato in altri scritti, sia pure in modo ancora imperfetto.

Mi limito a suggerire due esempi, non perfetti come tutti gli esempi, ma che danno un’idea di quanto vorrei spiegare assai meglio. Immaginiamo un bravo surfista che volteggia sulle onde di un mare molto mosso. Si tiene in equilibrio, riesce perfino a darsi delle direzioni. Si tiene però in superficie, non conosce l’intera massa liquida in tutto il suo spessore e nei vortici che si trovano appena più in profondità. Ad un certo punto perde l’equilibrio, cade dentro l’onda, viene travolto e trascinato da essa. Rischia persino di affogare se non riesce in qualche modo a riprendersi. Non ha tempo per capire e conoscere a fondo ciò che si svolge nell’onda in tutta la sua enorme massa liquida; e certamente non pensa alle direzioni da prendere, non divide l’onda in parti e non gli interessano le loro interrelazioni. E’ pervaso da un ben diverso impulso alla sopravvivenza. Solo se riesce a riprendere il suo primitivo assetto, è di nuovo in grado di percorrere l’onda. E ritornerà pure al suo normale comportamento di studio e analisi dell’onda, attenendosi al suo andamento di superficie.

Altro esempio. Un individuo è coinvolto in piena battaglia e nel caos di quest’ultima non ha tempo di studiarne l’andamento. Oppure si trova nell’altrettanto squassante confusione susseguente ad un terribile terremoto. O anche semplicemente è nel bel mezzo di un traffico automobilistico particolarmente disordinato. Non può essere in grado di seguire lo svolgimento effettivo di quanto accade attorno a lui. Un generale che osserva la battaglia da una collina vicina, un elicottero che dall’alto visiona il traffico, afferrano per sommi capi il turbinoso susseguirsi degli eventi. Tuttavia, è dire troppo che ne hanno reale conoscenza; possono seguire e prevedere tale movimento per sommi capi e per brevi periodi di tempo. Devono perciò, in tempi più o meno lunghi, riadattare periodicamente la loro immagine dei processi in corso di evoluzione. E comunque con la continua sopravvenienza di errori o quanto meno di notevoli imprecisioni; non parliamo dei dettagli, spesso tutt’altro che irrilevanti, su cui in genere si deve sorvolare in uno sguardo d’insieme.

D’altra parte, tutto ciò è insito nel modo stesso in cui si “conosce” e si “prevede”: sempre facendo precedere tale attività da una stabilizzazione della situazione e del suo previsto sviluppo. Non sembra che tale stabilizzazione sia precedente, tutto appare contemporaneo, anzi far parte delle medesime modalità d’azione. Malgrado quello che alcuni sostengono, il soggetto umano non s’immerge mai veramente con il pensiero e i suoi sensi nel fluido in cui sta realmente immerso. Non ne è sempre consapevole, ma egli si astrae dalla realtà reale, la osserva come fosse all’esterno (come il generale guarda la battaglia, l’elicottero controlla il traffico). Quando si è convinti di conoscere per “intuizione”, immedesimandosi nel fenomeno cui si crede di partecipare senza alcuna separazione da esso, è solo perché l’azione del separarsi e la costruzione della “realtà” sono pressoché istantanei, avvengono in un intervallo temporale che l’individuo non è in grado di avvertire.

Tutto appare contemporaneo. Non è così; tra la percezione e la “conoscenza” del percepito (che è appunto il flusso reale e realmente inconoscibile) sta la stabilizzazione necessaria a ottenere un certo equilibrio per quanto sempre instabile. Instabilità che ci riafferra in tempi successivi più o meno lunghi, quando infine ci si accorge – a meno che non si continui a vivere nell’illusione presa per autentica realtà, come avviene nelle persone di profonda fede – di aver ottenuto dei risultati completamente diversi da quelli perseguiti o, nel caso dei processi della natura, d’essere in presenza di fenomeni non previsti tramite i modelli “conoscitivi” formulati (anche matematicamente).

Quanto detto non significa che ogni nostro sforzo è vano, che viviamo in una continua illusione. Otteniamo invece spesso dei successi, il che significa che la nostra analisi era dotata di un certo grado di realismo. Tuttavia, dobbiamo essere consci che ogni successo è temporaneo e parziale, che lo scacco non è lontano. Vi è però la sconfitta completa, che semplicemente distrugge quanto si era costruito nella pura illusorietà; e ciò avviene quando ci si accanisce in analisi destituite di qualsiasi fondamento. E vi è invece la finale presa di coscienza di non aver conseguito il risultato voluto, ma con il ben noto “senno di poi”. Per un certo periodo di tempo le nostre costruzioni “conoscitive” funzionano abbastanza bene, ci portano a notevoli mutamenti del nostro modo di vivere, a nuove strumentazioni atte ad un miglioramento di tale modo, ecc. Solo in seguito ci accorgiamo che la situazione è notevolmente diversa da quella immaginata, cercata e sperata. Quindi, mai dire che è inutile impegnarsi, che è meglio darsi al “vivere e basta”, cioè a sopravvivere senza alcuna aspirazione, senza più alcun impegno, senza pugnace rivendicazione d’un cambiamento. L’importante è sapere che viviamo nel successo transitorio, nell’entusiasmo che infine si attutirà e dovrà ripiegare su nuovi ripensamenti, nuove riflessioni, il tutto condito da ulteriori incertezze.

Questa la nostra vita d’uomini immersi nel flusso reale e inconoscibile. Dobbiamo accettarlo, altrimenti siamo semplicemente dei vili, dei meschini che vogliono soltanto ottenere il successo e mai scontrarsi con il fatto che la realtà fugge davanti a noi. Dobbiamo rassegnarci al perenne suo “inseguimento”. Saremo sempre alla “coda” di quel flusso, che ci sopravanzerà continuamente. Il coraggio si dimostra nel non arrendersi, nel proseguire “la caccia” con tenacia e pazienza, fino a quando il “nostro” mondo esisterà.

Questa l’ipotesi da me fatta per riproporre una oggettività di fronte alla quale noi diventiamo agenti ad essa subordinati, obbligati da essa a determinati comportamenti. Ho cercato di dimostrare che Marx ha pensato una ben precisa oggettività, quasi sempre incompresa da non esaltanti filosofi e da ancor meno capaci scienziati che si sono sciacquati la bocca con il marxismo, mai capendolo se non per le affermazioni superficiali relative allo “sfruttamento”, al “comando” dei capitalisti e altre banalità del genere; per non parlare dell’alienazione umana, la più fatua fra le invenzioni di questi mediocri. La mia ipotesi è tutt’altro che conclusiva, certa, indiscutibile. E’ almeno un tentativo di non inventarmi un Marx esclusivamente preso dall’“ira funesta” per i soprusi perpetrati ai danni del proletariato e colmo d’amore per i diseredati e gli oppressi. Marx è stato molto di più, lascia a distanza siderale questi sciocchi che balbettano e biascicano frasi vuote in suo nome. Tuttavia, era un vero pensatore e come tale era anche lui all’inseguimento del flusso reale in fuga incessante e tumultuosa. Ha sbagliato poiché ogni pensatore sbaglia; in specie quando consideriamo le sue idee da opportuna distanza temporale. Dobbiamo perciò correggerlo; e sbaglieremo pure noi, se ne accorgeranno i nostri successori.

6. Possiamo adesso concludere. Non entro in molti particolari poiché dovrei ripetere quanto già sostenuto in “Flusso reale, inconoscibile”. Questo testo è in fondo un’aggiunta a quello, al fine di ben esplicitare il vero motivo per cui l’ho scritto. In Marx, contrariamente a quanto creduto dalla maggior parte degli studiosi che a lui hanno fatto riferimento, esiste una precisa oggettività. La “lotta di classe” – in se stessa considerata, trattasi di una semplice interazione (duale) tra soggetti antagonisti – è fondata sulle dinamiche della formazione sociale capitalistica, così come lui le pensava. Già da molti anni ho deciso di abbandonare la centralità della sfera produttiva e della proprietà o meno dei mezzi di produzione – su cui si basa il concetto di classe in Marx – trasferendola al conflitto tra le strategie di più soggetti, teso alla conquista della supremazia; siano questi soggetti individui, gruppi sociali, Stati, ecc. Il che significa, contestualmente, mutare il primato dell’economia – sia pure in quanto struttura dei rapporti sociali di produzione – in quello della politica. Non nel suo senso di sfera degli apparati e istituzioni definibili come politici, bensì quale serie di mosse nel corso dello scontro tra competitori: nella sfera politica (Stati, partiti, sindacati, gruppi sociali vari, ecc.), in quella economica (ad es. le imprese) e in quella ideologico-culturale.

Mi sono quindi trovato nel pieno dell’intersoggettività. L’ipotesi del flusso reale inconoscibile nei termini già trattati nel precedente saggio e ribaditi in questo è stata formulata nell’intento di ritrovare l’oggettività; evidentemente con modalità differenti da quelle marxiane e adeguate alla nuova centralità posta. Non si tratta quindi evidentemente di un’ipotesi che do per sicura, certa, addirittura indiscutibile. Contraddirei quanto ho sostenuto in merito all’inconoscibilità del flusso in questione, alla conseguente impossibilità di ogni verifica sperimentale, di ogni evidenza empirica tramite i nostri sensi e le nostre pratiche d’azione. E’ soltanto un’ipotesi che mi sembra ragionevole supporre, che mi pare risolvere il problema che mi assilla: dare un fondamento oggettivo all’intersoggettività del conflitto strategico.

Il flusso è pensato squilibrante per il suo andamento caotico, casuale, privo di qualsiasi finalità. Nel suo scorrere tumultuoso, in cui i soggetti sono immersi, situa alcuni di essi al di sopra di altri; poi sconvolge con periodare di varia lunghezza le loro posizioni, li distanzia e poi riavvicina, li fa entrare in urto e frizione, ecc. Da ciò nasce sia l’inimicizia tra individui e gruppi sia il loro stabilire rapporti d’amicizia e di alleanza per meglio affrontare il conflitto. E nella conduzione di questo, i soggetti non possono non costruire campi di stabilità, posizioni di equilibrio, dividendo il flusso in parti, creando strutture relazionali tra di esse, presumendo determinate direzioni di mutamento delle strutture nel modo meno casuale possibile, rappresentando spesso il movimento per punti discreti pur infinitamente ravvicinati. Tutti problemi su cui ho già discorso.

E’ del tutto evidente che io stesso – in quanto pensatore entro questo flusso, ma che, nel tentativo di descriverlo, devo astrarmi da esso, osservarlo come se mi trovassi al suo esterno – non posso non sbagliarmi in definitiva più o meno grossolanamente. Se qualcuno vorrà porsi nella mia ottica, sarà lui in seguito, con il passare del tempo, a individuare i miei errori e a correggerli, rincorrendo il flusso e incorrendo in nuovi errori. Così di seguito fino alla “notte dei tempi”. E con questo ho finito, ma solo per il momento.