Per questo nuovo appuntamento con le interviste ho voluto fare quattro chiacchiere con un fotografo giovanissimo, ma che ha fatto già molto parlare di sé, in Italia e all’estero.
Il merito è probabilmente dovuto alla forza dei suoi reportage e ad una precoce collaborazione con un giornale di spicco nel panorama mondiale: “Der Spiegel”, rivista settimanale tedesca ad altissima tiratura, che non se l’è fatto scappare.
Anche prescindendo dalla bellezza vibrante delle sue fotografie, c’è qualcos’altro che mi ha stupito nel nostro ospite. E cioè il suo interesse per temi sociali forti e dolorosamente attuali e la sua determinazione nel volerli affrontare con il mezzo fotografico, costi quel che costi.
Da parte di un ragazzo così giovane tutto questo fa ben sperare per il futuro.
Nelle righe che seguono scopriamo qualcosa in più su Giulio Magnifico e lasciamoci trasportare dalle emozioni racchiuse nelle sue fotografie.
Buona lettura, buon viaggio.
Ciao Giulio e benvenuto su Fotocomefare! Ho letto che hai iniziato a fotografare quando eri ancora un bambino: ti ricordi come si è sviluppato il tuo interesse per la fotografia?
Nella mia vita ho avuto la fortuna di poter viaggiare molto e di incontrare scenari e personaggi dei più diversi e interessanti. Sono sempre stato molto attento ai dettagli delle persone e dei luoghi e mi sono sempre piaciuti i film.
Così, ho deciso di frequentare l’Istituto d’arte con indirizzo “Fotografia e filmica”, dove ho potuto approfondire tutti i dettagli sulla fotografia e mi sono anche accorto di avere una maggiore motivazione per la fotografia più che per la filmica.
Fino ai 14-15 anni fotografavo con una Yashica a pellicola di mio papà: mi affascinava molto tutto il meccanismo dell’obiettivo e del riavvolgimento del rullino.
Successivamente, in prima superiore, ho comprato la mia prima macchina fotografica digitale, che era una Nikon del tipo bridge (P5700).
C’è qualche foto che hai scattato da bambino di cui vai particolarmente fiero o a cui sei particolarmente legato?
Riguardando gli album fotografici dei miei genitori di una quindicina d’anni fa effettivamente trovo che alcune mie immagini, disperse e dimenticate, sono interessanti, per quanto semplici. Alcune sono state scattate al nord Europa e a Parigi…
Mio papà mi diceva sempre di non fare foto banali ai paesaggi o ai monumenti, dato che per quelle si potevano comprare le cartoline o vederle sulle riviste. M’invitava a fotografare le persone o le cose particolari che mi colpivano: da qui viene anche la mia passione per i personaggi e le scene fuori dal comune.
Sul tuo sito è possibile vedere i bellissimi reportage che hai realizzato in Siria, Iraq, a Parigi e in Sicilia: si è trattato di lavori su commissione o di progetti personali? Cosa ti ha spinto a scegliere proprio quelle mete?
Per quanto riguarda la Siria, Iraq e Parigi, ho deciso di mia volontà di andarci. Per quanto riguarda, invece, la Sicilia, si trattava di un reportage realizzato per “Der Spiegel”, accompagnato da una giornalista della stessa rivista.
Ho scelto quelle mete perché, secondo me, la fotografia deve raccontare storie, luoghi e persone, e le storie più interessanti si trovano sempre nelle situazioni più estreme, come nel caso della guerra civile siriana e irachena.
Immortalando quelle persone, si può portare a conoscenza di chi le guarda quello che stanno vivendo in quei luoghi, spesso dimenticati o ignorati.
A Parigi, invece, ci sono ritornato perché per me è una, se non la, città più bella ed affascinante del mondo, con le sue luci, la sua vita, le sue storie, i suoi miti e la sua cultura!
Ho cercato di raccontare la vita delle strade, dei parigini e nei bistrot, come la vivrebbe una persona del luogo.
Come hai fatto ad organizzare il tuo viaggio in situazioni “di pericolo”, per esempio durante la guerra in Siria tra l’Isis e gli oppositori?
In quei luoghi è importantissimo avere contatti fidati e moltissime informazioni.
Ogni viaggio ha una storia a parte: in Iraq sono entrato in corriera dalla Turchia. In Kurdistan la situazione è meno pericolosa, mentre al confine siriano mi sono mosso con un’auto a noleggio.
Non ci sono regole generali, bisogna avere un itinerario con delle mete prestabilite e cercare di seguirle. Non sono obbligatorie, ma è importante deciderne alcune, senza andare a caso, altrimenti potrebbe diventare pericoloso.
Quello che succederà si vedrà sul momento, l’unica cosa certa in questi viaggi è la partenza.
I tuoi reportage hanno un carattere di denuncia o vuoi comunicare qualcos’altro?
No, io non voglio denunciare, io voglio raccontare.
Sarà poi l’osservatore a trarre le sue conclusioni, ma non voglio riportare forzatamente delle immagini negative, in modo da essere facilmente comprese come denuncia sociale.
M’interessa solo riportare quello che vedo: per questo motivo scatto anche tante foto “positive”. Nonostante le loro condizioni disperate, molti soggetti ripresi sono in grado di regalare un sorriso o una speranza.
Come è possibile, secondo te, far “passare il messaggio” usando la fotografia? Tu come ci riesci?
Catturando le particolarità, cercando di non essere banali o scontati. Infondendo curiosità e interesse nell’osservatore.
Se una foto è troppo scontata, non credo che chi la guarda possa recepire un messaggio, se la foto invece sarà particolare e diversa dai soliti scatti, attirerà l’attenzione.
Con questo non voglio dire di fare foto astruse solo perché risulterebbero diverse, ma di cercare di cogliere le particolarità dei luoghi e delle persone.
Per esempio si potrebbe fotografare un locale tipico (io l’ho fatto con il progetto dedicato alle osterie nella mie regione), o lo sguardo intenso e carico di forza di un senza tetto (senza necessariamente dovere trasmettere la sua disperazione, che è quello che tutti si aspetterebbero).
Su Flickr hai più di 5000 followers, quasi tutte le tue foto superano i 200 preferiti e il team ti ha anche voluto intervistare. Un successone! Vuoi dirci cosa ti piace in questo social network e che tipo di uso ne fai?
Beh, è il principale social network fotografico, se non altro come dimensioni, anche se, in verità, non ho particolari preferenze per Flickr.
Puoi trovarci di tutto, ci sono foto splendide e altre addirittura imbarazzanti, e c’è anche chi lo usa come spazio per tenere tutte le sue immagini.
Io sono iscritto da quando era ancora in versione beta e ho sempre continuato a usarlo, perché è stato il primo e quello con più seguito mediatico.
Bisognerebbe forse fare del crossposting (mettere le stesse foto) anche su altri network fotografici come 500px o 1x, per avere una maggiore visibilità ma, alla fine, a me non interessa ricevere preferiti o visite. Deve essere un piacere per me postare una foto, non un impegno.
Non credo neanche sia utile pubblicare foto troppo spesso, è importante saperle selezionare!
Inoltre, grazie a Flickr, (e ai suoi gruppi) ho conosciuto molti amici fotografi con cui mi incontro, ed è un ottima fonte di ispirazione.
Credo sia necessario guardare molte foto per restare ispirati, non sempre di fotografi famosi, altrimenti si andranno a creare foto già viste. E Flickr ti permette, appunto, di trovare scatti molto meno conosciuti, ma non per questo meno belli.
La mia galleria è qui.
Perché fotografi in bianco e nero?
È una mia scelta da molti anni. Il colore è una complicazione in più per il fotografo, può rovinare uno scatto. Ma, soprattutto, può far cadere l’attenzione in punti o particolari della foto, dove io, invece, non volevo cadesse.
Oltre tutto la luce è bianca o nera, noi distinguiamo alcuni colori ma credo che la fotografia in bianco e nero sia più “pura” perché più essenziale e diretta. Ovviamente dipende dal tipo di foto…
Non c’è proprio nessun soggetto che fotografaresti a colori, per esempio in un possibile progetto fotografico nel tuo futuro?
Beh, io fotografo in raw quindi potenzialmente tutte le mie foto sono a colori. Io non le vedo mai così perché il mio workflow è tutto in bianco e nero, ma non nascondo che in futuro è possibile che mi dedicherò a un progetto a colori.
So che nella vita lavori come impiegato ma, allo stesso tempo, sei anche diventato un fotografo professionista. Come è accaduto questo? Qual è stato il tuo primo ingaggio?
Non mi considero fotografo professionista perché non è un lavoro costante, ma una forma d’arte.
Quando ho voglia fotografo, ma non lo voglio fare perché mi viene imposto come lavoro.
Ad ogni modo, vendo le mie foto nei posti più disparati, dal negozio di vini pregiati australiano, all’atelier di sigari di Honk Kong, passando per molte riviste. Però, purtroppo, non riesco a vivere di questo, perché non è un reddito costante ma saltuario.
Il mio primo ingaggio è stata un’intervista e delle foto della mia città per ”Der Spiegel”, circa 3 anni fa.
Generalmente quando viaggio preferisco essere libero di muovermi come voglio. Ovviamente se qualcuno mi volesse ingaggiare come inviato sarei comunque ben contento!
Quando ti accorgi di una situazione o di una persona che vuoi fotografare quanto conta l’improvvisazione e quanto, invece, lo studio dell’immagine?
Ah è tutta improvvisazione! Io vedo la foto, che sia una scena o un ritratto, e poi cerco di catturarla nel migliore dei modi.
Per il genere di foto che faccio non potrei studiare uno scatto, non posso chiedere a qualcuno di mettersi in posa, la foto perderebbe di naturalezza e non è il modo in cui mi piace fotografare.
Post produci le tue fotografie? Che tipo di interventi fai?
Si certamente, un raw va sviluppato come un rullino. Uso solo Lightroom, non faccio interventi pesanti, non cancello mai nulla insomma. Modifico solo le luci, il contrasto, la nitidezza ecc.
Faccio tanti piccoli interventi, finché la resa della foto mi piace. Ma se dovessi togliere qualcosa o clonare (cioè stravolgere una foto) non la scatterei a priori.
Infatti, non ho mai passato in Photoshop una sola mia foto. Lo ritengo uno strumento troppo distruttivo, mentre Lightroom mi piace per la sua libreria e per la possibilità di effettuare solo interventi non invasivi.
Come fai a capire se qualcuno vuole essere fotografato? Chiedi sempre il permesso prima di scattare?
Ovviamente per fare un ritratto ravvicinato devo chiedere il permesso e, alle volte, mi dicono che non vogliono foto. Allora desisto.
Invece altre volte, soprattutto per le scene più ampie, per non perdere naturalezza, preferisco cercare di fare tutto senza chiedere. Non di nascosto in senso stretto, mi limito a scattare normalmente, se poi mi dicono qualcosa cerco di dialogare e spiegarmi.
Quali sono i temi sociali e culturali o i luoghi del mondo a cui vorresti dedicare un reportage, ma non hai ancora potuto farlo?
Sono infiniti, avessi i soldi e il tempo viaggerei moltissimo nei più disparati luoghi del globo… purtroppo non posso!
Al momento mi piacerebbe essere al confine ungherese a raccontare il dramma dei migranti, ma mi piacerebbe anche seguirli per tutto il viaggio, dalla Siria fino all’Italia o al nord Europa.
Un altro viaggio che mi piacerebbe fare è in Africa, tra Nigeria e Burkina Faso, come anche vorrei dedicare un reportage ai luoghi tipici italiani dove si passa il tempo libero (bar, osterie, locali, ecc..).
Spero di trovare il tempo e i soldi per farlo nel futuro più prossimo.
A proposito di tempo libero, il tuo progetto fotografico sulle osterie di Udine ha fatto il giro del mondo: un’intervista sul The Indipendent, articoli sulla stampa locale, molta attenzione anche dalle riviste di fotografia nazionali.
Si, mi ha fatto molto piacere che sia stato riconosciuto globalmente, perché si parla dei miei luoghi, della mia città, e perché sono tra le foto che mi piace di più scattare. Con quelle luci e in luoghi così caratteristici!
Semplicemente, mi portavo dietro la macchina fotografica, nei ritagli di tempo, e giravo per le osterie di Udine, passando e ripassando, finché non trovavo la persona giusta nel posto giusto, con la luce e la scena giusta. Poi catturavo il tutto.
Sono una serie di foto che ho scattato nell’arco di 2-3 anni: fortunatamente si tratta di posti raggiungibili semplicemente camminando nella mia città.
Dal punto di vista della tecnica fotografica come ti sei mosso, visto che sono tutti scatti in interno?
Non ho trovato particolari difficoltà. Ma era necessario usare del materiale all’altezza. Sono posti abbastanza piccoli e poco luminosi, servono quindi lenti ampie e luminose.
Io ho usato per la maggior parte il 35mm f/1.4 e, in un paio di scatti, il 24 f/1.4 abbinati ad una Nikon D800E, che non ha problemi agli alti ISO.
Comunque si riesce sempre a scattare con ISO abbastanza bassi, perché si possono usare tempi lunghi, anche di 1/60 se il soggetto è fermo. Diciamo che raramente credo di aver scattato oltre ISO 2500.
Ti va di consigliare ai nostri lettori un libro o un film sulla fotografia che ti ha particolarmente colpito?
Sfoglio parecchi libri e guardo anche molte foto online. Però se devo consigliarne uno non ho dubbi: “Paris Mon Amour”. Costa una decina di euro e contiene dozzine di foto di fotografi famosi, così si evita di fossilizzarsi solo su un fotografo.
Per quanto riguarda i film bisogna distinguere tra i film che parlano prettamente di fotografia, come potrebbe essere “Il sale della terra” su Salgado o il film sul fotografo di guerra Tim Hetherington, e i film che non parlano di fotografia ma dove la fotografia la fa comunque da padrona.
Allora, in questo secondo caso, citerei i film di Kubrick come “Barry Lyndon” o “Eyes Wide Shut”, oppure i film di Kitano come “Sonatine” o “Zatoichi”, o, ancora, film di Scorsese come “Casinò” o “The Goodfellas”. Un altro film dove la fotografia è davvero superlativa è “La Sottile Linea Rossa” di Malick.
Nelle serie di tuoi scatti “Man” e “Woman” hai fotografato quasi esclusivamente persone anziane. Qual è il motivo di questa scelta?
Il motivo è che trovo molto più espressivi gli anziani o i bambini (che ho ritratto nella serie Children), ognuno con una personalità assai differente.
Nella fascia di età tra i 15 e i 30 anni le persone tendono ad uniformarsi, quasi ad avere timore di sentirsi diversi.
Oltre tutto non li trovi mai soli a leggere un giornale ma in gruppi e, ogni volta che cerco di coglierli in naturalezza, invece di restare naturali, si mettono a ridere o in posa, fanno espressioni strane, e così via.
Insomma, non suscitano interesse in me, e, quindi, non credo possano suscitarne in chi guarda gli scatti.
Mi è capitato di fotografare i giovani, però sempre in scene di strada, come quelle delle serie Street ed Urban life.
In che direzione sta andando, secondo te, il tuo genere fotografico? Come immagini la fotografia di reportage tra venti o cinquant’anni?
Per quanto riguarda le ‘breaking news’ la faranno da padroni non i fotografi ma gli autoctoni: saranno gli stessi cittadini, con i cellulari o altri mezzi, a scattare foto e girare video che le agenzie useranno.
Ai fotografi professionisti saranno riservati i lavori più raffinati, i racconti e i reportage nel senso esteso del termine. Saranno anche molto supportati da droni che ormai sono una costante in molte zone di guerra, e non parlo di droni militari, ma di quelli armati di videocamera.
So che fotografi anche con una fotocamera mirrorless: qual è la differenza rispetto la reflex? Ne fai uso in contesti diversi?
Si, le differenze sono gli ingombri e la semplicità di utilizzo. La mirroless la puoi avere sempre in una tasca o in mano, è molto più silenziosa, rapida ed immediata.
Io la uso proprio in totale automatismo (decido solo i tempi e la compensazione, il resto lo fa lei, compresa la scelta della messa a fuoco).
In questo caso l’intento non è catturare per forza immagini perfette, ma solo immagini che altrimenti non avrei catturato con la reflex, molto più complicata e vistosa.
Comunque le mirrorless rappresentano il futuro. Ormai la più grande differenza sono la qualità dei mirini digitali e l’autofocus ma, in entrambi i casi, nell’ultimo anno si sono fatti passi da gigante.
Parliamo invece, della fotografia fatta con gli smartphone. Molti la criticano, mentre altri sostengono che ciò che conta è avere una buona idea da rappresentare. Nel frattempo, fioccano anche i concorsi fotografici dedicati. Cosa ne pensi?
Per me non è importante con cosa si scatta, ma l’immagine che si ottiene, che è più bella se la qualità dello strumento è migliore.
Dal punto di vista della qualità gli smartphone non offrono proprio il massimo. Se, invece, l’immagine riesce ad avere una buona qualità, allora non è importante con cosa è realizzata, ma cosa comunica.
Purtroppo, quando visualizzi la foto su uno schermo piccolo non puoi apprezzarne la qualità ma solo il messaggio.
Per quanto riguarda i concorsi dedicati, non mi trovo particolarmente d’accordo, perché un concorso dovrebbe premiare l’immagine in sé, indipendentemente dal mezzo con cui è realizzata. Non capisco l’esigenza di suddividere per mezzo tecnico, ma solo per tema. Però è una mia opinione personale.
Tutte le fotografie di questo articolo sono di Giulio Magnifico, ogni diritto appartiene all’autore. Puoi guardare l’intero portfolio di Giulio sul suo sito personale.
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