Ci pensavo ieri mentre guardavo la mia tela incompiuta di Gilles Villeneuve che è appoggiata al calorifero della mia camera da un po’ di tempo. Gilles mi guarda da lì tutti i giorni: so che lo devo finire ma so anche che proseguo quando mi va. Quando sono troppo arrabbiata anche per scrivere, quando davvero non voglio più avere a che fare con il mondo. E’ per questo che va a rilento: le parole rimangono sempre al primo posto come scudo contro le cose.
Guardando Gil mi sono detta che è assurdo continuare a paragonare lo sport al mito. Forse alla leggenda, quando i suoi protagonisti non vengono dimenticati e continuano a restare come baluardi di una società che butta via tutto. Ma al mito no. Enzo Ferrari amava Gilles come un figlio, lo amava per il suo modo di guidare, per il genio e sregolatezza al volante. Era il pilota per il quale progettava le sue macchine, forse il prototipo che aveva immaginato quando plasmava la sua prima rossa. Forse lo amava perché si rivedeva in lui: giovane e con l’ossessione della velocità, del farcela a qualunque costo.
Umanità. Mito niente. Arianna, Teseo, il Minotauro e Bacco. Il mito ce lo facciamo noi, lo decidiamo noi.
Umanità, come nel ciclismo. Sport sfigato come la vita, che i telegiornali ricordano quando succede qualcosa di brutto. Ciclismo che di mito non ha niente e la sua pelle non se l’è certo fatta sugli arabeschi dei racconti antichi. Antichi sono i sassi del pavè che frustano l’anima coriacea di quei ragazzi che sanno cos’è il sacrificio, e la prigione l’assaggiano tutti i giorni, quando segnano la reperibilità su ADAMS come se fosse un messaggino da mandare alla mamma o alla fidanzata.
Dove sei, con chi sei, cosa fai.
No, niente mito qui. Dove sulla bicicletta si è fragili ma coi piedi a terra ancora di più. Niente mito nell’esistenza vera che non ha vincoli, orari o recinti: ciclista è ciclista sempre, alle sei di mattina quando prelevano il sangue e alle dieci di sera quando si deve andare a letto perché domani bisogna pedalare. “E’ entrato nell’Olimpo dei grandi” dicono. No, non c’è Olimpo nel ciclismo: anche quando sei sul primo gradino non lo sei mai davvero. Basta un attimo, un soffio di vento non tuo per farti capire che i monti, qua sono solo da scalare e che se stai in alto ti devi guardare alle spalle, proprio come quando sei in fuga.
No, non c’è il mito in questa umanità. Ed è questo quello che ci salva, quello che rende il ciclismo lo sport nostro, vicino alle batoste che ci arrivano ogni tanto, alla vita bella a intermittenza, ai nostri traguardi sudati, umiliati. Alla voglia di riscatto che ci grida dentro e vorremmo che tutti la sentissero. Umanità di ragazzi così vicina ai nostri giorni divisi tra il grigio della quotidianità e l’azzurro dei sogni. Ci porta via, il ciclismo, dal nostro spleen, ci trascina su, a volare come gli albatros. Albatros impacciati a terra e superbi in cielo diceva Baudelaire. E forse anche i ciclisti sono così, superbi in bicicletta come creature di cielo. Eppure non hanno niente di quel superbo indorato, di quello che ci fanno ingoiare come cattiva retorica. Superbi in quello che sono: piedi negli scarpini e mani sul manubrio come uccelli votati a una direzione unica.
Tra poco comincerà la stagione, quella in Europa, qui su queste strade dove il ciclismo si sente a casa. Gp Costa degli Etruschi e poi sarà Sanremo, filo invisibile che unisce Milàn alla Riviera. Una buona stagione lo sarà sempre: con la pioggia, con il sole, con gli occhi assonnati del mattino per raggiungere una partenza ed essere là, prima che la festa se ne vada. Le macchine parcheggiate abusivamente, le corse senza fiato, le mani gelate. Tutto per essere là.
“Oktober is coming” scriveva a grandi lettere Jack Kerouac al suo amico fraterno Sebastian Sampas nel 1941. Oktober non era solo un mese ma un simbolo. Simbolo della giovinezza che svanisce dolcemente per lasciar posto alla saggezza e all’amore. Sì, all’amore.
“Allora saprai che sono palpitante Primavera invecchiata e avvizzita. E tu scoprirai che vivere è soffrire. E allora scoprirai che soffrire è conoscere la pietà, e quindi l’amore”
Arriva anche il nostro di Oktobre, ancora una volta, come ogni anno: la pietà, l’umanità, la tenerezza che impareremo sulle strade, aspettando il rumore delle ruote che non ci stanchiamo mai di ascoltare. Non ci ha insegnato forse l’amore, questo Oktobre sempre nuovo, fatto di biciclette e ossa che hanno conosciuto il dolore? Soffrire è conoscere la pietà. E l’umanità del ciclismo ci fa restare a galla sempre, anche quando sembra che abbiamo dimenticato come si fa a nuotare.
Che il vento vi sia alle spalle, piccoli grandi albatros sulle due ruote, migranti tra il caldo e il freddo, gruppo di schiene nel grigio cielo della strada. Ali coraggiose che, se per caso il vento ce l’hanno in faccia, resistono ma non cambiano direzione.
No, non c’è mito in tutto questo. Lo racconto come l’ho visto e, già questo, restituisce tutto. La verità non ha bisogno di nient’altro per essere vera. E forse sono un po’ come Enzo Ferrari, amo questi ragazzi perché sono come me. O meglio come vorrei essere: sguardo dolce e scorza tenace contro le sfide della vita.