Sono entrato nel mondo di quella che allora si chiamava editoria digitale dalla porta di servizio, quella dei programmatori. Internet non era così importante come la multimedialità offline, i cd rom per intenderci, la posta elettronica si scaricava un paio di volte al giorno a meno di urgenze, ma ci si avvisava prima per telefono dell’invio di qualcosa. Ho trascorso almeno cinque anni a scrivere righe di codice, la faccia inebetita e rischiarata dai monitor a 256 colori, l’autoironia proverbiale, perché assente, degli ingegneri. Purtroppo i posti per gli esperti di contenuti erano tutti pieni già allora, perché erano già tutti presi dal personale in esubero dell’editoria tradizionale. Ho dovuto quindi attendere che le figure intermedie, gli esperti di contenuti ottimizzati per i new media, acquistassero credito e attendibilità. In quel periodo ho fatto di tutto: software per giochini didattici per le scuole elementari e calendari interattivi soft porno di uomini svestiti, un ipertesto di storia per le superiori e persino la versione multimediale di un noto dizionario. Ma programmare è uno di quei lavori che ti brucia il cervello, e nella sfortuna di una società che stava affondando trascinata dagli scarichi della bolla esplosa a fine millennio scorso ho avuto l’opportunità finalmente di tornare a scrivere in una nuova agenzia ottenendo, con il tempo e la pratica, lo status di copywriter. Troppo tardi, perché già si stava traslocando tutto sul web duepuntozero. E vabbè, nessun problema, faccio anche quello. Ora, una delle cose che mi ossessiona di più è immaginare me a 65 anni ancora qui a fare il creativo, a pensare titoli, trovare le parole giuste, essere sempre acuto e pronto sui socialcosi, ottenere interviste, scrivere articoli, produrre video corporate, adattarmi all’ennesima piattaforma su cui il mercato si sposta. Colleghi, compagni (si fa per dire), lavoratori: avremo ancora lucidità sufficiente per tutto questo? (ammesso che esista ancora una economia).
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