CHAN WOOK-PARK: IL SANGUE E LA VENDETTA
Chiara Pani
OLDBOY (2003)
Un incipit fulminante, un protagonista iconico e una storia di vendetta, amore e prigionia: questi, in pillole, i tratti salienti di Oldboy (2003), la pellicola più celebre del cineasta sudcoreano Chan wook-park, il suo film-simbolo. Il film narra, com’è ben noto, la storia di Oh Dae-su (lo strepitoso Choi min-sik, che ricordiamo anche in I saw the devil, 2010) e della sua prigionia durata 15 anni, dopo un rapimento del quale non immagina il motivo; alla straniamento che segue la liberazione, alienato e stordito in un mondo che stenta a riconoscere, il suo unico desiderio è la vendetta. Trova, nella giovanissima Mi-do (Kang hye-jeong) l’amore che potrebbe salvarlo dal suo stesso odio, ma il destino si sa, segue sentieri diabolici e in questo caso ha il volto ammaliante di un nemico. Oldboy è tratto da un manga in otto volumi pubblicato dalla Futabasha tra il 1996 e il 1998, ma il film di Chan wook-park si allontana dal fumettistico, per assumere i contorni del melo’ a tinte forti e, in primis, quelli tipici della tragedia greca: Sofocle è l’esempio più lampante e paradigmatico dei meccanismi alla base del plot, dunque è pressoché inutile menzionare l’Edipo Re, sia a livello tematico che puramente strutturale. Per citare Aristotele, nella sua Poetica: “la situazione più adatta alla tragedia greca è quella di un uomo che non abbia qualità fuori dal comune né per virtù né per giustizia, e che si ritrovi a passare da una condizione di felicità ad una di infelicità, non per colpa della propria malvagità, ma a causa di un errore. Questo mutamento può avvenire a causa di una peripezia o di un’agnizione (riconoscimento), oppure, nei casi migliori, di entrambi.” .Ciò che differenzia la tragedia Sofoclea dal capolavoro del cineasta coreano è il discorso sulla conoscenza della propria identità: Edipo è teso, nel corso dell’intera opera, verso la verità sulle proprie origini, mentre Oh Da-su è determinato a individuare chi nutra verso di lui un odio tale da spingerlo a imprigionarlo per 15 anni, e cosa l’abbia motivato a farlo. La natura del protagonista e del suo legame con Mi-do compare come verità che annichilisce, e proprio in essa risiede la vera punizione da parte del villain, ma non è mai stata ricercata coscientemente da Oh Dae-su. Dunque, i meccanismi tragici vengono, in un certo qual modo, ribaltati, in modo che il ruolo di vittima del personaggio principale risulti ancora più accentuato, poiché la colpa è di gravità mortale, ma compiuta in maniera inconsapevole. A tutto questo si uniscono carne e corporeità (la mutilazione della lingua), citazioni musicali alte (l’Inverno di Vivaldi, che si fonde al magnifico score composto da Jo Yeong-wook) e rimandi al cinema americano classico, in primis nella figura del villain, Lee woo-jin (Yu Ji-tae), altolocato e smagliante rampollo che sembra preso di peso da una commedia anni ’40. Cinematograficamente perfetto in ogni singola inquadratura, Oldboy rappresenta un caposaldo nel cinema contemporaneo, vetta talmente alta da essere considerata praticamente intoccabile.
Chiara Pani
OLDBOY (2013)
Ormai è uno stucchevole luogo comune quello di sottolineare, rispetto ai remake, l’atteggiamento selvaggio, o presunto tale (molti tendono ad ignorare che il rubinetto hollywoodiano dei rifacimenti è aperto dal 1904), da parte delle major americane. In effetti, però, quello di Oldboy è un’anomalia. La mecca del cinema ha, seppur generici, dei parametri di giudizio nello scegliere le pellicole da rifare: il film deve essere vecchio o un horror. Il sudcoreano Oldboy (2003) di Chan-wook Park non rientra in nessuna di queste categorie, ed è oltretutto amatissimo da un pubblico mainstream. Le reazioni, infatti, da parte degli appassionati sono state, da subito, per un violento “no”, anche se molti erano fiduciosi che il film non sarebbe mai arrivato a vedere la green light. Poi, l’annuncio, dopo anni di ipotesi e indiscrezioni (è dal 2008 che si parla di questo progetto), della Mandate Pictures, a Luglio del 2011, che il regista sarebbe stato Spike Lee e l’attore Josh Brolin. A quel punto, svanito ogni dubbio, le voci contrarie al rifacimento del secondo capitolo della “trilogia sulla vendetta” si sono moltiplicate e fatte più veementi, con tanto di petizioni e pagine Facebook. A rafforzare le perplessità è stata anche la scelta del regista. Dopo il botto con La 25ma ora (2002), Lee, con l’eccezione di qualche documentario per niente distribuito e Inside man (2006), non ha convinto nessuno. Tra un Lei mi odia, un Il miracolo di Sant’Anna e mille sterili polemiche e Tweet rancorosi, la reputazione di Lee ha toccato, negli ultimi anni, il suo punto più basso. Diciamo da subito che con questo film, di certo, non si rialzerà, ma questa affermazione non deve far pensare che tutto sia da buttare.
Brolin è incredibile. Ovviamente i transfert non bastano a salvare un film che di difetti ne ha da vendere; a farlo, o comunque a quasi riuscirci, è Josh Brolin. La mimica fisica e le sottigliezze recitative restano impresse ben oltre la visione del film. Il protagonista di W (2008), con la sua faccia da ranchero a stelle e strisce puro sangue, sembra unire due tradizioni recitative e generazionali. Una sorta di Lee Marvin moderno su cui si regge tutta l’impalcatura del film. Brolin gioca con i silenzi, trasformando il suo volto e passando da granito a lacrime in maniera fluida ed ineccepibile. Comunque l’odio per Oldboy non farà altro che crescere con il tempo. Su questo non ci piove. Odio che in questi ultimi giorni si è trasformato in silenzio. In massa stanno ignorando il film. Ma sarebbe bello se si cogliesse l’occasione, con questo “piccola” pellicola deforme e informe, di capire quello che dice, magari involontariamente, al di là degli sterili giochi da settimana enigmistica, del “trova la differenza”. Ogni studioso d’arte pittorica sa che la storia si può raccontare tanto con i capolavori quanto attraverso i falsi e i falsari.
Eugenio Ercolani