Una brutta fiction in puro stile raiset – mancavano solo Garko al posto di Zingaretti e la Arcuri nei panni di paola levi – ha celebrato tutti gli stereotipi letterari della ricostruzione: imprenditore buono contro padroni rapaci, ragazze madri deamicisiane contre dame borghesi molto irrequiete, contadini virgiliani contro industriali spregiudicati, maccartiste ghignanti contro ammiratori di Proudhon , per santificare, riducendola a macchietta, la figurina di Olivetti.
C’è tutto nel sontuoso feuilleton in salsa manichea: buoni e cattivi, valori cristiano e culto del profitto, male e bene, tentazioni sovietiste e redenzione tramite battesimo, per esaltare in una trasfigurazione calligrafica un mito estremo: profeta disarmato, giullare di dio, visionario disinteressato, mecenate megalomane, riducendo un disegno politico a comunità catecumenale, dove tutto avviene per chiamata di una provvidenza futurista che nutre l’improvvisazione trasformandola in realizzazioni e business.
È un gran peccato, un’occasione perduta tra le tante. Ma è soprattutto un crimine intellettuale e morale la riduzione di un tempo, di una temperie di esperienze e dinamiche potenti e creative, di un’epoca di paure e speranze, nella quale le ultime si mostrarono, per un po’, più determinate e forti delle prime, al molto contemporaneo culto di una leadership personale, la contrazione di un’utopia a qualcosa di più affine al kibbutz per non dire al campeggio, secondo quella seducente ma azzardata allegoria di socialismo realizzato che si deve a Jerry Cohen. E soprattutto l’adattamento di un percorso politico e ideale di molti: politici, intellettuali, qualche imprenditore, sindacalisti, maestri dai piedi scalzi, preti, laici iplacabili, a esperienza esistenziale, vocazione personale, indole missionaria di un uomo solo. E per questo largamente incompiuta per non dire fallimentare.
Non è mica casuale: non basta Steve Jobs a condannare all’oblio il primo cervellone di Ivrea, Apple a aver reso obsoleta la lettera 22, non sono le sorti magnifiche de progresso a aver cancellato l’Olivetti e Comunità, l’e book a aver seppellito le sue edizioni raffinate. È che un disegno politico ha sconfitto il tentativo di mettere termine alla fase predatoria del sistema capitalistico tramite il riformismo.
Erano tempi creativi, tempi di sfide dell’immaginazione nelle città, nelle fabbriche, nella scuola, nei giornali ed anche nella politica. E c’era chi diceva che il riformismo si doveva imporre a colpi di maglio, assestando delle gran botte al sistema, come nel caso della nazionalizzazione dell’energia elettrica. E c’era chi voleva il tessere di una inesorabile ragnatela, quella immaginata da Fuà, da Sylos Labini, da Giannini, da Momigliano, da Caffè, da Ruffolo, che incorporasse il sistema industriale, finanziario, giuridico in una trama di vincoli e regole razionali, programmate, strategiche. Due visioni ugualmente appassionate, generose, lungimiranti e ambedue sconfitte dall’affermarsi invece di disorganiche e abborracciate misure emergenziali, assistenziali, clientelari, fino all’odierna catastrofe civile, economica e democratica.
Non è casuale, non solo per via di quell’abuso secondo il quale gli annunci e i misfatti governativi passano sotto il nome di riforme, ma anche perché la consacrazione a figurine Panini di quelle personalità, le condanna appunto alla leggenda, mentre la sbrigativa e pragmatica realtà di oggi è fatta di Marchionne, della passerella di cervellini impegnati nella cialtronaggine comunicativa della Leopolda, nella decrescita per sentito dire dei grillini, che non fa male a nessuno, nella nostra rinuncia a sognare, che è poi il crimine più orrendo, la ferita inguaribile inferta a questo Paese.