Negli scorsi giorni, settimane, oserei dire anni, si è parlato incessantemente del problema dell’«odio sul web», quella tendenza di alcuni frequentatori della Rete a lasciarsi andare ai peggiori istinti pavloviani e non, e quindi a utilizzare social network, forum e sezioni commenti per abbandonare qualsiasi principio etico e insultare, minacciare, offendere e augurare le cose più turpi. L’approccio di chi prova a dipanare la matassa spesso prevede la richiesta di interventi legislativi ad hoc, scomoda McLuhan, indaga i “contro” del mezzo Internet, si chiede dove stiamo andando a finire.
Senza togliere nulla – a cominciare dalla sua intrinseca noiosità – a questo dibattito, personalmente mi sono fatto un’idea diversa. Sono ovviamente d’accordo nel ritenere interventi come quelli di molti grillini (e non) in occasione del malore di Bersani aberranti e indegni di diffondersi in maniera capillare. Ma Internet è questo, a prescindere da ogni etica e prima di ogni sacrosanta indignazione. Ho il dubbio che buona parte dei partecipanti alla suddetta discussione siano persone che hanno una visione piuttosto limitata e modesta del mezzo, stretta tra ciò a cui esso serve (le ricerche su Google, i video su YouTube, le chiamate su Skype etc.) e l’«odio sul web», da stanare e combattere adeguatamente.
In tutti questi eccessi retorici, comprensibilmente preoccupati e inopportunamente decisi a intraprendere crociate, manca un dato fondamentale: la Rete, com’è detta, non è soltanto questo. Per comprenderne il funzionamento, le logiche, in un certo senso lo spirito non basta accendere il computer due volte la settimana per leggere le notizie del Corriere o controllare la posta sulla vecchia casella email di Libero. Chi si riempie la bocca di espressioni come «il popolo della Rete» e succedanei, di solito non sa nemmeno di preciso di cosa parla. Come usa Internet, «il popolo della Rete»? Che fonti consulta per reperire le informazioni? E con che frequenza?
Vivo – si può dire – Internet dalla preadolescenza, e credo di conoscerlo abbastanza per poter definire cos’è e cosa non è. Non esiste «il popolo della Rete» né quello di Twitter: online ci sono personaggi che hanno fatto del loro hating un punto di forza, uno stile espressivo che rende la loro produzione inconfondibile e assolutamente piacevole (pensate a Qualcosa del Genere e a Matteo Lenardon, aka Bucknasty). Com’è ovvio, non si può accostare una chiave stilistica a insulti o minacce di morte tout court, ma il problema è a monte: perché fare fronte unito contro «l’odio in Rete» senza sapere che persone autodefinitesi “haters” hanno colonizzato il mezzo, riplasmandolo, prima che molti dei difensori della morale imparassero ad accendere un computer?
Le inqualificabili ingiurie a Bersani e tutto ciò che è venuto in precedenza (nonché quello che verrà in futuro) sono un problema di educazione e coscienza individuale, non «di Internet». Il Web è una piattaforma in cui trovano spazio episodi vergognosi di questo tipo, certo, ma è esattamente così che è stato costruito: la sua struttura è capillare, dispersiva, spesso colonizzata da utenti anonimi, frequentemente dissacrante e quasi sempre votata al random (il carattere che vediamo rappresentato nei meme, ma non soltanto: su Facebook ho un contatto che passa le giornata a condividere sui social status improbabili di personaggi dello spettacolo in declino, foto spassose di calciatori e strafalcioni di politici e giornalisti; inutile dirvi che lo adoro). Chi ha pensato e indirizzato le graduali evoluzioni del web l’ha voluto così: è un sistema che – con le dovute precisazioni e obiezioni: vi ricordate di Justine Sacco? – dovunque è lasciato libero e inclusivo permette a milioni di persone di imparare, confrontarsi, scambiare sapere e opinioni. Cose che, altrimenti, richiederebbero sforzi e risorse economiche enormi, è bene ricordarlo.
Il problema dell’«odio» a me suona simile a un ipotetico dibattito pubblico sul problema della distanza di Marte: è una battaglia contro i proverbiali mulini a vento, persa in partenza, un esercizio retorico fine a se stesso. L’hate speech è sempre esistito, ma nessuno negli Stati Uniti è riuscito a far chiudere Reddit o gli altri siti dalle comunità di utenti più ampie e variegate. Per me Internet rimane il posto insostituibile in cui poter sapere in tempo reale ciò che succede in quasi ogni angolo del globo, per poi scrivere un breve pezzo di commento che ho in mente, come questo, per poi leggere un articolo sul New Yorker, per poi consultare un forum di – che so – ex adepti di Scientology, per poi ripescare un video di un ormai sconosciuto ex terzino del Parma e il testo di una poesia letta anni fa. In tutto questo, i commenti personali deliranti, offensivi e apertamente minacciosi per me rimangono un rumore di fondo tollerabile. Dargli spazio in prima pagina significa fare il gioco di persone il cui ultimo problema, occhio e croce, dev’essere l’etica delle nuove tecnologie.
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