© Pasquale Urso: Acquaforte
tante carte disseminate sulla scrivania
Ebbi allora un déjà vu, come la percezione di averla già incontrata, con la sua fluente chioma nera inanellata fin sulle spalle, accarezzata dal vento, in riva al mare, laggiù, nella poetica landa del De Finibus Terrae.
Ero io, quel vento, e non riuscivo a fermarmi da lei. Con lei.
Le mie carezze, tutte, vane.
Venne la notte, oltre la mezzanotte.
Corsa a piedi nudi sulla rada sabbia, per rispondere al fruscio del mare, sugli scogli.
Raccolsi una conchiglia. Le parlai.
“Pronto”.
“Sono a letto”.
“Vorrei essere lì, addormentarmi con te”.
Silenzio.
Un’onda lunga, un suono sordo e prolungato.
“Tu non vuoi il mio corpo. Vuoi i miei segreti, le mie emozioni, la mia mente”.
Ovvio.
Silenzio.
Alcune altre parole, importanti, banali, dimenticate.
Un’altra onda lunga. Un fragore sordo… Strano!
“Se vuoi il mio amore, forse lo avrai. Ma non farmi del male, ti prego, non farmene mai”.
Nessuna risposta, nessuna promessa.
Quella notte scrissi, per lei, la prima delle mie solitarie elegie notturne.
Oggi, due lacrime enormi, in equilibrio instabile, nell’incavo degli occhi, sull’orlo dell’abisso.
Immobili. Incredule.
Una caduta greve, assurdamente lenta, interminabile. Due piccole gocce sapide, ora quasi impercettibili onde concentriche, si perdono nel mare.
Oggi ho capito, finalmente, cos’è il mare: un’immensa distesa liquida, formata dal pianto tardivo di tanti, tantissimi imbecilli come me, ma, senza dubbio, di me meno colpevoli.
Laggiù, all’orizzonte, i primi chiarori dell’alba dipingono i contorni delle montagne d’Albania come orribili spettri iridescenti, generati dalla mia inconsistenza.
Il tempo si è fermato di fronte alla menzogna.
Il mio cuore è esploso.