Omaggio a Vittorio Gassman a 15 anni dalla scomparsa

Creato il 29 giugno 2015 da Marvigar4

Da Alessandro Gassman, Sbagliando l’ordine delle cose, Finale di partita. Spegni le luci, pagg. 9-14, Mondadori, Milano 2012.

Spegni le luci. L’ultima cosa che mi ha detto prima che me ne andassi è stata: «Spegni le luci».

Lo ripeteva spesso, come un mantra. Aveva a che fare con l’interdetto del consumo dell’energia, era un metodo per esorcizzare quel trauma, il buio, introiettato sin da piccolo assieme alla paura di morire povero. «Spegni le luci» disse. E questa volta intendeva per sempre. Quella sera ero andato a casa sua, era da solo e gli ho preparato la cena. Stava male, ma non mi sembrava così tanto. Aveva il pigiama a righe stropicciato e il fiato corto, ansimava un po’, ma lo trovavo reattivo.

Diletta la mattina successiva mi chiamò in lacrime e la raggiunsi in motorino. Arrivai a casa e subito abbracciai il piccolo Jacopo. Era lui che aveva trovato papà morto. La prima che vidi in salotto fu Nadia Cassini. Tu dimmi che cazzo c’entra una Nadia Cassini inedita e disperata a casa nostra, addirittura consolata da Diletta. Arrivammo a ipotizzare un vecchio flirt mai rivelato. Era solo il primo dei personaggi improbabili che entrarono da quella porta. I cassamortari giravano intorno come avvoltoi, controllavano in continuazione l’orologio e con il tatto sconcio che li distingue mi dissero: «A signò, questo fra un po’ c’appesta a tutti. Che famo, je mettemo un vestitino mejo e lo posamo ne la cella frigorifera? Dàje va’!».

A quel punto cacciai via tutti: i becchini, la Cassini, l’intera fauna degli intrufolati, e restammo solo noi della famiglia, i più stretti, che siamo comunque larghi. Eravamo da molto tempo una famiglia allargata dalle tante storie sentimentali di mio padre, che ha avuto mogli italiane, americane, francesi, rapporti vari ed eventuali. È vero, ovunque nel mondo la maggioranza delle famiglie vive secondo un modello standard: madre, padre e figli, nella stessa casa, con passaporti rilasciati dalla medesima nazione, che parlano la stessa lingua. Un legame che, per il senso comune, appare necessario e al contempo naturale. Noi avevamo imparato a governare il caos degli affetti attraverso lingue differenti e culture sentimentali diverse.

Ebbi il coraggio di guardare il suo corpo solo un attimo. Mi sembrò così piccolo. Quando lui era bambino, suo padre era talmente gigantesco che sotto la doccia lo riparava dall’acqua. Quando io ero bambino, il pomeriggio mi appisolavo sul petto di mio padre e mi sembrava di poggiare la testa su una montagna. Inspirava e andavo su, espirava e andavo giù. Un saliscendi metronomico del nostro affetto, un ottovolante incantato della nostra intimità. Un uomo così grande era diventato d’un tratto così piccolo. I corpi dei morti rimpiccioliscono. Come si restringessero dopo che la vita ha smesso di alitare in loro.

Voleva farsi imbalsamare. Seriamente. Si consultò anche con Giulio Andreotti per capire come farlo. Intendeva registrare alcune sue frasi tipiche su «una bobina musicale», come la chiamava lui, ed essere impagliato come un gufo parlante in salotto. Un po’ macabro, ma pensava che fosse un bello sberleffo alla morte. Così nelle serate con ospiti e amici avrebbe potuto continuare a importunarci con la sua dizione magistrale. Con delusione scoprì che la legge non lo permetteva. Uno dei miti che ha inseguito e copiato è quello di Edmund Kean, esempio di genio e sregolatezza, vizioso e turbolento, che desiderava essere preso dalla bara e portato a cena con gli amici. Morto. Insomma, uno che aveva trovato il giusto squilibrio e in cui mio padre si guardava come in uno specchio.

Il caro Mario Monicelli, compagno sul set e fuori, col suo solito modo di dissacrare, sosteneva la teoria che «muoiono solo gli stronzi». Emio padre l’aveva adottata, diceva che sarebbe stato molto attento a non farsi capitare quel momento di stronzaggine, almeno finché non avesse compiuto cento anni. Anzi, nemmeno troppo segretamente aspirava a diventare bicentenario.

Sulla sua tomba volle che fosse scritto: “Qui giace Vittorio Gassman. Attore. Non fu mai impallato!”. Come epigrafe alternativa aveva dettato: “Qui giace Vittorio Gassman, è morto povero ma ben illuminato”. Non morì certamente povero, come temeva da piccolo. Abbiamo optato per la prima.

Mi pareva strano vederlo così piccolo nella bara. La morte rimpicciolisce. Non mi faceva paura. Piuttosto mi sembrava quasi di mancargli di rispetto, invadendo un momento di sua debolezza. «È dolce se a fine spettacolo il genio diventa un cretino, ma dimmi che il nostro vicino non se ne accorgerà.» Quella non era la sua taglia, per la prima volta non era all’altezza di una situazione e non potevo vederlo così, non avrebbe voluto che lo vedessi così. Non è così, sconfitto e inadeguato, che volevo ricordarlo.

L’istante in cui lo salutai non sapevo bene cosa augurargli. Nessuno di noi due credeva in Dio. Ci definivamo degli “speranzosi” piuttosto. Ma se fosse capitato in Paradiso gli avrei augurato di venire declassato in Purgatorio, gli sarebbe piaciuto di più: più simile alla vita terrena, con le sue imperfezioni e i suoi dislivelli.

Andai al piano di sopra a preparare un caffè. Ero abituato, papà non sapeva farselo. Ci aveva provato, sbagliando sempre la successione delle fasi di quella operazione, e ci aveva definitivamente rinunciato dopo aver tentato di accendere il fornello elettrico con un fiammifero.

C’era il televisore acceso e giocava l’Italia. Io e Jacopo ci sedemmo lì davanti, lanciando occhiate distratte alla partita. Era la semifinale dei campionati europei, Totti in panchina, per niente contento. Anche noi non eravamo per niente contenti. Nei primi venti minuti l’Olanda aggrediva e gli azzurri soccombevano. I giocatori si innervosirono, fioccarono le ammonizioni, ci fu un’espulsione e rimanemmo in dieci in campo. Rigore contro, che non va a segno. Salì Emanuele e si sedette insieme a noi. Non parlavamo di quello che succedeva al piano di sotto. Come sempre in questi casi, è il silenzio a urlare di più. Avevamo ancora espressioni di circostanza disegnate sulle facce per censurare il dolore. All’inizio del secondo tempo l’inferiorità numerica si trasformò in grinta, le nostre ripartenze erano un bel segnale, cominciarono ad appassionarci. Secondo rigore contro l’Italia. La palla non va dentro. Si vede che non era destino. E constatarlo quando al piano di sotto un altro destino si era appena compiuto, sembra strano dirlo, dava la sensazione di un processo naturale. Qualcosa finisce, qualcos’altro rinasce.

Salì Giancarlo e si unì a noi. La partita prosegue ai tempi supplementari. Il risultato non si sposta. Zero a zero. Si va ai calci di rigore, con tutte le gambe azzurre in preda ai crampi. Le nostre quattro facce risucchiate dallo schermo. Si spezza il silenzio e anche il pudore con un tifo sommesso, quasi una liturgia. Sale la tensione. Tira Di Biagio, l’Italia centra il primo. Tocca all’Olanda, Toldo para il lancio di Deboer. Tra noi ricade il silenzio, ma stavolta di scaramanzia. Andiamo in rete con Pessotto, loro di nuovo fuori. Stam manda la palla in tribuna. Siamo due a zero. Si può sperare. Arriva Totti. In credito di attenzione, orgoglioso, spudorato, sbeffeggiante, e je fa er cucchiaio che diventa leggenda.

Ha rischiato l’impossibile per quel tre a zero. L’arancione Kluivert infila secco alla sinistra del nostro portiere. Tre a uno. Tocca a Maldini, che non tira un rigore da tre anni. Lo sbaglia. L’Olanda può rimettersi in carreggiata con Bosvelt, ma un Toldo in stato di grazia intercetta e para.

Finisce tre a uno per noi. Esplodemmo di una gioia paradossale. Ci abbracciammo con calore e in quel salotto sembrò di essere allo stadio. Furono novanta minuti di sollievo. Grazie all’incosciente leggerezza di quel gesto atletico così teatrale, il cucchiaio, avevamo vinto la disperazione dell’angoscia, non la tristezza del dolore. Quella la superai con il distacco, come fossi spettatore di una rappresentazione. L’avevo impacchettata ben bene da qualche parte e avevo attrezzato la mia bomba a orologeria.

Il mio lutto non è stato isterico, ma appena visibile agli altri, forse perché l’idea di teatralizzarlo, trattandosi di mio padre il grande attore, mi sarebbe stata insopportabile. L’amore e il dolore, nell’istante in cui sono presenti, sono uno stato eterno, irrimediabile, sconvolgente. La vita si accorda su di loro. E può accadere che la presenza dell’assenza pervada tutto e ti accompagni. Ne sento la mancanza terribilmente e affatto. Affatto perché mi tornano in mente le sue battute e rido, so cosa avrebbe detto in determinate situazioni e rido, io stesso continuo quel vizio che ho sin da piccolo di sdrammatizzare e, quando lo faccio, immagino lui ridere. Ero il suo giullare. Papà nascondeva la timidezza con una sicurezza di sé che a tratti sfiorava l’arroganza. E poteva sembrare molto antipatico. In realtà era un uomo dolce, molto simpatico e bramoso di risultare tale. Un giorno, avevo quattro anni, mi chiese se lo trovavo divertente. «Alessandro, ti sono simpatico?» Risposi: «Sì, sei divertente». Poi, appena lo vidi gonfiarsi d’orgoglio, aggiunsi serio: «Però sei molto vecchio».


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