Nonostante la passione per il poliziesco, trovo sempre più difficile trovare qualcosa che si scosti da quel canovaccio stantio composto dalla sacra triade: omicidio, indagine, soluzione.
Soprattutto, a venirmi spesso a noia, sono i protagonisti, eroi positivi chiamati lì ad incarnare il bene, come se il bene fosse incarnabile, e gli eroi esistessero ancora.
Per questo, forse, lo sbirro Rocco Schiavone, perché di sbirro si tratta, nell’accezione meno nobile del termine, vicequestore romano (vice-questore non commissario, per carità), in temporaneo esilio ad Aosta, risulta un anti-eroe ben disegnato.
Che intendiamoci, non c’è novità alcuna, negli anti-eroi. Ma riuscire a costruirne uno senza cadere nello stucchevole e nel forzato è meno semplice di quanto possa apparire.
In questo senso il poliziotto Rocco Schiavone, protagonista di Pista Nera, risulta un personaggio ben congegnato.
Intanto perché é l’anti-Montalbano ed incarna la summa di tutti gli elementi negativi che non troviamo nel commissariato di Vigata.
Poi perché Schiavone, che non è commissario ma vice-questore (ché la qualifica di commissario, come ripete con vezzo pedante, è stata abrogata da anni), é un disonesto, cresciuto in un quartiere popolare in cui l’alternativa era diventare o guardia o ladro.
E Schiavone ha scelto di essere guardia, mantenendo inalterato l’istinto a delinquere.
L’unica cosa che lo distingue dai criminali che persegue è la divisa che indossa: tolta quella non resta che un uomo scaltro e privo di scrupoli, che infrange senza rimpianti la legge se in ballo ci sono dei quattrini.
Spedito per motivi disciplinari nel gelo, tra le nevi di Aosta, lui, animale trasteverino, si ostina ad affrontare
la vita con loden e Clarks ai piedi. Per schiarirsi le idee, ogni mattina si fa un cannone di marijuana sequestrata.
Il vice questore Rocco Schiavone bisogna prenderlo per quello che è. Scorretto, manesco, irascibile e pieno di debolezze.
E’ un violento che non esita a ricorrere all’aggressività. Non ha nessun rispetto per i colleghi, che umilia e svilisce continuamente.
Non ha rispetto per la divisa che rappresenta, che è disposto ad immolare sulla’ltare del denaro.
Ama la bella vita. Odia il suo lavoro, e non ne fa mistero, per lui un omicidio è solo ‘una rottura di coglioni di decimo grado’.
Insomma, Rocco Schiavone è assolutamente credibile. Perché è un perfetto rappresentante dell’Italia peggiore, quella corrotta, quella senza etica né morale. ed è il senso di triste e dolorosa attualità del personaggio a dare anche all’umorismo una nota amara.
Quando maltratta D’Intino e Deruta, non c’è nulla della leggerezza di Montalbano con Agatino Catarella. Schiavone è solo stronzo. Con diverse sfumature. Che variano dall’un po’ al moltissimo.
Pure, non riesci a trovarlo antipatico, grazie alla sua coatta romanità, che strappa parecchi sorrisi.
E, proseguendo nella narrazione, anche Schiavone svelerà un lato più umano e una sua etica molto personale, che non lo riscattano, ma aiutano a definirlo.
Come romanzo, Pista nera è e resta un discreto giallo, ben congegnato, e senza particolari lacune nell’intreccio. Che sembra una banalità a dirsi, ma ultimamente non è sempre così.
All’inizio sembra un incidente: un corpo abbandonato su una pista da sci, smembrato e dilaniato dal passaggio di un gatto delle nevi. Anche riconoscerlo è un problema, figurarsi capire che non si tratta di incidente ma di delitto. E così, nonostante si tratti di una rottura di coglioni di decimo grado, Schiavone si rassegna a fare quello per cui lo Stato gli passa ogni mese uno stipendio: indagare sull’omicidio al gelo.
Lo fa, e lo fa bene, perchè Schiavone è uno sbirro di quelli bravi, e soprattutto uno che non ama gli vengano servite verità preconfezionate.
La scrittura di Manzini somiglia a Schiavone (e non potrebbe essere altrimenti): asciutta ed ironica.
Protagonisti e comprimari vengono letti e raccontati con gli occhi scazzati del vice-questore dipingendo una realtà di chiaroscuri, poco rassicurante ma con i tratti della sincerità.
L’ambientazione aostana rappresenta un punto di forza. E Manzini rende bene le dinamiche sociali di un microcosmo in cui tutti si conoscono e nel quale una certa freddezza di fondo si stempera nel pettegolezzo selvaggio dietro le tendine.
Tutto questo, naturalmente, dopo una lunghissima pausa per il venerdì del libro