Un messaggio pesante, verrebbe da dirsi, per un gruppo di fattoni che passa le proprie giornate a trombare come conigli e fumare qualsiasi cosa gli passi sotto il naso. E, questa, ad essere sincero, è proprio l’impressione che avrei avuto del film, se non fossi stato a conoscenza della sua provenienza. Il lungometraggio segue fedelmente la trama del romanzo, partendo dalla morte del padre di Sal che spinge questo a partire in autostop per raggiungere l’amico, alle storie d’amore tra Dean e Marilou, e poi Dean e Camile, e poi Dean e Marilou di nuovo, per poi arrivare al viaggio in Messico, pasando dai concerti jazz, dalla visita ad Old Bull Lee, e così via. Il film è così fedele al libro, che la voce narrante di Sal recita frasi più importanti del libro durante le scene più introspettive. Il film è così fedele al libro, che diventa troppo fedele al libro, dimenticandosi che la storia in sé ha poco valore se non raccontata all’interno di un contesto più ampio, dimenticandosi che le azioni dei personaggi sono in realtà sempre le stesse in luoghi differenti e possono diventare noiose se non supportate da un messaggio di fondo.
Non che ci si potesse aspettare un’interpretazione, intendiamoci. Il regista è andato sul sicuro e il minimo dettaglio raccontato in modo differente avrebbe scatenato l’ira dei fan di Keoruac di tutto il mondo, anche se forse qualche leggera alterazione, come è successo nella versione cinematografica de I Diari del Rum di Hunter S. Thompson, lo avrebbe reso più scorrevole. Il lavoro che ne è venuto fuori comunque non è per niente male, gli attori principali, tutti giovani, sono bravi (sì, anche quella di twilight), i dettagli sono curati, e le fumose scene di fronte alla macchina da scrivere (ma non solo quelle), hanno la sua poesia. È una ben girata finestra sugli anni quaranta. Il problema è che non è quello che dovrebbe essere. Un manifesto, un cult.
Come avrebbero dovuto farlo allora? Ecco, questo è il punto, questo film, per me, non avrebbe dovuto esistere. Guardandolo mi sono reso conto che On The Road non si può raccontare, perché On The Road non è una storia. La verità è che la prima volta che lo lessi non arrivai neanche a metà. Sal e Dean non sono eroi, non fanno niente di così particolare da dover essere raccontato, e stufano quando ci si accorge che la trama non si evolve, non cambia mai. On The Road non ha una trama, perché è un pensiero, è un’idea, è ispirazione, è la libertà, i fatti non contano. È Kerouack che si chiude in una stanza e lo scrive su un rotolo di carta senza neanche rileggere, è “Dig it”, è Dean che non dorme mai.
On The Road non è Into The Wild insomma, non è un film che, per quanto ben fatto, riesce a stare in piedi da solo. Entrambi raccontano la storia di viaggiatori, di idealisti, di persone alla ricerca di qualcosa che è più grande di loro stessi, ma mentre Christopher McCandless ha trasmesso il suo pensiero in modo molto chiaro tramite una scelta estrema, diventare un eremita, abbandonare la tecnologia e la ricchezza materiale, ed è quindi ben rappresentabile nello schermo, la forza di Kerouac sta nel riuscire a rendere romantico un luogo sporco come le nostre città, riuscendo a creare un movimento parlando dell’asfalto, ma questo, allo stesso tempo, ha bisogno di un’interpetazione che è possibile solamente tramite una fotografia più grande di quella proposta nel film.