Once upon a time: Lindos, 1993

Creato il 20 marzo 2012 da Sirinon @etpbooks

Apparve come un piccolo mondo tutto a sé, gravido di una storia che era storia cristiana, ortodossa e musulmana, ovvero un crocevia vivente che dalle antiche vestigia del tempio di Athena a Lindos, passava attraverso il castello dei Templari d’epoca crociata nel centro dell’abitato di Rodhos, all’interno del quale un vecchio hammam ed altre testimonianze di ottomana tradizione completavano il quadro delle civiltà che là si erano incontrate e scontrate. A ciò si aggiungeva la posizione geografica, che vede l’isola distante soltanto diciotto kilometri dalle coste turche tanto che nessuno sforzo occorre fare per vedere ampi tratti dell’antica Licia dove, nella cittadella di Patara vi è, oggi sotto attento restauro, il più antico parlamento, che pare rubi il privilegio della paternità democratica alla Grecia antica essendo stati, i Lici, popolazione proveniente da più luoghi e di non certa origine ellenica come volle già, a suo tempo, farci credere Omero al quale, come sappiamo, certo non difettava, oltre che lo spirito dello storico, anche la fantasia. Ma se ancora questo entourage colmo di richiami provenienti dai secoli più lontani non fosse sufficiente, ecco a sud il piccolo promontorio di Capo Prasonisi - teatro di uno thriller mozzafiato sul quale torneremo - dal quale, giunti in prossimità del faro che lo sovrasta, si può ammirare l’incredibile spettacolo offerto dal Mar Egeo e dal Mar Mediterraneo che si incontrano, costituendo una scriminatura che si perde verso l’orizzonte per l’incontro tra le acque più verdi del Mediterraneo (a destra) e quelle più blu dell’Egeo (a sinistra), come se quello fosse un particolare centro del mondo, là dove le opposte forze, gli opposti elementi, le diverse nature e culture si sono incontrate e continuano ad incontrarsi, formando una sottile linea spumeggiante in virtù anche delle opposte correnti che le comandano. Ci dissero poi che avevamo avuto fortuna. Il fenomeno cui avevamo assistito era dovuto al soffiar dei venti ed al conseguente dirigersi delle correnti che, in quel periodo dell’anno ed in quelle particolari circostanze, offrono talvolta quello spettacolo superbo. Ma Rodi non era soltanto tutto questo, era anche Italia ed Italia recente come avevamo avuto modo di notare. La lunga permanenza del nostro governatorato portò ad una convivenza che, dalle seppur scarse notizie che fui in grado di raccogliere, fu improntata ad una certa cordialità e costituì anzi incentivo alla realizzazione di alcune infrastrutture ancor oggi esistenti. Fu però anche portatrice di scontri allorquando, dopo la resa italiana nel 1943, vi si combatterono aspri combattimenti con i tedeschi che, inevitabilmente, ebbero il sopravvento sull’ormai isolato presidio italiano, tedeschi che poi se ne andarono circa due anni dopo lasciando ciò che hanno lasciato in mezza Europa. Ma al cospetto dell’ordinata ricchezza dell’isola, furono quelle, notizie marginali e secondarie. Era il 1993 e Rodhos, porto principale nonché capoluogo era l’insediamento più vivace e rappresentativo delle culture che vi avevano convissuto, palpabile oltre che nelle vestigia e nell’urbanizzazione del centro, anche nei souvenir dei mercatini, ricchi di pouf e di narghilé, così come di anfore ed icone. Ma fu con un lungo boccale a forma di stivale colmo di una birra da litro, in una piccola taverna ricavata nello spessore delle antiche mura del castello dei Crociati che celebrammo, ancora una volta, la fratellanza mia e dell’amico di tutta una vita con il quale, in virtù del suo fresco matrimonio, volli fare un personale quanto inusuale brindisi tra terre greche in odor di Turchia, un castello di Crociati, un bicchiere a forma di italico stivale ed una birra, tedesca, per l’appunto. Vinsi la gara ricordo, gara che oltre a decretare quanto potessimo esser scemi, decretò anche (così avrebbe deciso il destino) chi dovesse restare a ricordare, a portare il fardello della memoria che non si sa se possa essere o sia, più o meno grande di quello che tocca a chi se ne va. Sull’onda ebbra dunque della nuova vacanza procedemmo, noleggiate che furono le auto del caso, all’esplorazione doverosa di coste ed entroterra. Lindos è una perla bianca arroccata su un piccolo promontorio alla cui sommità si erge, ancora in buone condizioni, una piccola acropoli, all’interno della quale i resti di un tempio dedicato ad Athena ed uno a Zeus sono gli elementi di maggior spicco. O meglio, lo sarebbero, se la vista che si gode non fosse di così rara bellezza e tale non solo da ricongiungere il visitatore a tutti gli dèi ma, quasi fossimo tra i Lotofagi incontrati da Ulisse, capace di far perdere il motivo reale per il quale si è raggiunta la divina agorà. Mentre sulla sinistra si apriva come un minuscolo anfiteatro una bianca e stretta spiaggia simile a falce di luna, circondata da tutta la disordinata magnificenza che gli arbusti mediterranei possono offrire, sulla destra si inerpicava invece un oliveto alla cui base i filari di limoni e di aranci già iniziavano ad inondare di colori ogni piede di terra e sotto le cui fronde si nascondeva il lavoro secolare di chi, pietra dopo pietra aveva costruito piccoli muretti a sostegno di sinuose terrazze che andavano a perdersi poi, nella macchia. Su tutto la brezza del nord che non riesce a invadere il villaggio protetto com’è da quell’incavo roccioso in cui si annida e quasi si nasconde. Un villaggio di un’unica stradella tortuosa come si conviene, di buon lastricato e di pareti bianchissime attorno che riverberano sole e calore tanto che gli alberi, quei pochi lì nella piazzetta d’ingresso, tengono le fronde basse sotto le quali occorre quasi chinarsi per passare. Niente tavoli stavolta ma solo un fontanile che stanco zampilla un rivolo d’acqua che dispettoso racconta una distratta ed incompresa cantilena precipitando a casaccio su una griglia di ferri consunti, bitorzoluti e arrotondati per quella dolce metamorfosi che il tempo ha modellato insieme al colore brunito di una secolare usura. Intorno, dalle groppe legnose che il batter della verga stona in un rumore sordo, gli asinelli in disordinata fila, si presentano al turista, come sindaco, vicesindaco e giunta tutta intera per gli onori del caso e per l’ospitalità. Sì quella che ti concedono permettendoti di salire a cavalcioni di una sella minuscola e dura ove ti afflosci con le gambe pendule, pronto a divider quella sofferenza ch’è la salita su verso la cima degli dèi. Era il loro rude modo di comunicare e di spartire l’esperienza nel comune disagio. Neanche un richiamo per quei senza nome, solo un colpetto di verga e uno strattone al morso per vederli incamminare, senza che nessuna eco si propaghi al battere degli zoccoli. Un battere fitto, di passi corti, lenti, uguali, di un ritmo appreso negli anni e più dimenticato. E il silenzio intorno. Il silenzio del sole che ancora aggredisce, il silenzio del conducente che ti guarda, il silenzio che gli avventori ai tavolini dei caffè ti offrono in cambio di quell’ebete sorriso che quasi sempre tu, il turista, offri dimenticando che intorno c’è chi il somaro l’ha avuto da ricco, o forse, dal padre e suo padre dal nonno, così per una eterna eredità che rende questi animali testimoni senza tempo, senza un’età. Chi mai si è domandato quanti anni possa avere un somaro intravisto al giogo nei campi? A chi mai può interessare, se non al suo padrone? Eppure, in fila regolare ci portarono in cima alla collina dove, al termine dell’ultima curva, senza indirizzo, né gesto, né cenno, né voce, si bloccarono, rigidi, in attesa del riposo. E scendere sudati non fu meno penoso che salire, complici le riflessioni forse o quella sorta di contrappasso naturale che avrebbe dato loro la forza di sopportare, certi che il bruciore e il pizzicore che ci avrebbero lasciato, sarebbero stati la giusta moneta che li avrebbe ripagati per la incompresa fatica. Era mattina tarda e nonostante il luogo richiedesse ben più lunga sosta e osservazione, complici i rampolli irrequieti, fu deciso dopo un’oretta, un rapido ritorno al paese che, per guadagnar del tempo dicevamo, sarebbe stato nuovamente effettuato a dorso di somaro. Era una stradella sterrata ove da un lato v’era un muro eretto a sostegno delle pendici e, dall’altro, il classico nulla con in fondo l’azzurro del mare. Le nostre cavalcature stavolta non gradirono affatto l’incombenza tanto che dopo averci fatto percorrere un breve tratto sul ciglio del vuoto, accompagnati dal risolino tranquillizzante del conducente che invece a tutti suonava come   un’ode alla perfidia per quel “tipota, tipota, ola kalà” , ovvero “niente niente, tutto bene”, decisero di rompere gli indugi e dimostrarci con i fatti che quella non era ora per imporre fatiche a chicchessia, uomo o bestia che fosse. Detto fatto il primo accennò ad un passo di trotto che in breve divenne deciso e risoluto ed a nulla valsero i tentativi, non molto convincenti e autoritari, del primo conducente. Ciò rese lecito ai restanti quattro zampe di aggiungersi alla corsa che risultò drammatica per la durezza, la mancanza assoluta di appoggio mancando delle staffe e, fondamentalmente per l’aver, le bestie tutte, messo in atto quella proverbiale testardaggine per la quale niente e nessuno le avrebbe fatte desistere. Entrammo in paese come fosse l’ultima curva del Palio di Siena stavolta accompagnati dalle risa, fragorose, di quanti in silenzio avevano accolto il nostro arrivo. Credo che fu un miracolo se illesi riuscimmo a scendere sotto quell’albero dove, appena giunti, i somarelli, trovata la frescura che si addiceva a quell’ora del giorno, tornarono a quella mansuetudine che ci aveva all’arrivo ingannati. Erano stanchi ed io credo, anche felici. I conducenti si produssero in quegli ampi ed internazionali gesti che notoriamente invocano il caso, il destino ed il fato tutti insieme per recitare il loro dispiacere, tanto che ci venne offerta, a congrua riparazione, una bella fetta di “karpusi”. Belle fette di cocomero fresco, dissetante ma non ipnotico al punto da farmi scordare il dolore acuto e profondo che covavo in quel piccolo e raramente considerato coacervo di ossicini che si protende a fine colonna vertebrale e che stava producendo, senza controllo né ritegno alcuno, fiamme e dolore. I sedili dell’auto ci accolsero come magnifici divani di alcantara, come soffici piumoni. Dolorosamente giungemmo alla spiaggia sottostante dove un bagno ristoratore, i giochi curiosi intrapresi con una nidiata di piccoli polpi che erano giunti fino a riva ed una vera e propria capanna poco distante che ci accolse per un autentico pasto in famiglia con i residenti che volentieri ci accolsero alla loro tavola, risollevarono le sorti di quella giornata dove, per il momento il conto tra le gioie ed i dolori non aveva preso una netta direzione. Fu un pranzo memorabile. Una paranza fritta che sembrava non terminare mai per le due canne che due rampolli in calzoncini, non facevano che mettere in acqua tirando su in continuazione pesci, pascetti e pesciolini che finivano nella farina, da questa alla padella e da lì in una pagina di giornale dove troneggiava il buon nuovo primo ministro che iniziò così ad offrire i primi servigi al Paese asciugando per adesso l’olio. Le lacrime sarebbero arrivate più tardi. Pomodori staccati dall’immancabile filare sotto casa, due cetrioli, un cespo di quell’insalata tipo romana che qui ha la consistenza di una corteccia d’albero e le olive, che ciascuno produce da sé tanto che mai capiterà di mangiarne d’uguali essendo così sofisticato il conteggio dei giorni di salagione, di spurgo in acqua fresca ed infine delle ore di aceto da somministrare che ciascuno oramai protegge come un segreto di famiglia, fornirono il piatto forte. A parte, scaglie di feta condita, cipolla fresca, pane e tanta, tanta voglia di vivere. Feci vedere la foto del nuovo primo ministro così per cercare di ricavarne un per quanto breve commento ma i pesci che ci scivolarono sopra, una scrollata di spalle ed una mano che rivolgeva con ampio gesto al mare, valsero più di qualsiasi analisi politica ed economica. Atene era lontana.

Passavano gli anni, i decenni a quel punto, ma lo spirito restava uguale, a metà tra la rassegnazione e lo stupore per quel ballo che si faceva lassù nella capitale. Un ballo che ancora una volta non li avrebbe visti scendere in pedana ma unicamente restare ad osservare con occhio sempre più scettico quella gente che quasi neanche sapevano chi fosse. Mentre al contrario ricordavano bene De Vecchi, il primo governatore italiano, quello che fece costruire l’ospedale. Quello aveva fatto qualcosa. Così si continuava a vederla dalle isole dove sarebbero arrivate le nuove leggi, le nuove tasse e dove, così come da secoli si faceva con i turchi, si sarebbe trovato il modo per arrangiarsi, per pagare al massimo per quanto si riceveva e si sarebbe ricevuto. Niente o giù di lì. Facevano eccezione le grandi famiglie che sulle isole come in terraferma da sempre rappresentano l’altra faccia di questo paese. E come ci sono le famiglie storiche per la politica, così ci sono quelle per l’industria. Gli armatori soprattutto, poi i grandi proprietari di alberghi e le due o tre famiglie di editori che si spartiscono di fatto tutta l’editoria del paese, dai giornali ai libri, alle televisioni. Per loro la legge è un intreccio di solide relazioni al cui confronto i nostrani inciuci sono cose da ragazzi. Qui sono generazioni e generazioni che si coltivano alleanze, amicizie, scambi di favori, alcune addirittura risalenti agli anni dell’indipendenza, altre invece, nate e cresciute negli esili dorati di chi ha fatto fortuna fuori o quanto meno l’ha incrementata, per poi tornare da acquirente più che da concittadino.

La giornata era nel frattempo giunta al termine e tornammo al nostro albergo.

Era tra i primi colossi che si costruivano sull’isola. Un casermone immenso, almeno così sembrava, in quell’epoca abitato da noi e da una nutritissima compagine di tedeschi che, immancabilmente, sia alle 8 del mattino che alle 7 della sera trovavamo incolonnati per due lungo tutte le scale del palazzo, con il loro ticket in mano per il pasto: camicione a quadri o con palme addirittura, pantaloni semicorti, sandali in cuoio tipo Birkenstock ed immancabili calzini che i più estrosi portavano anche con motivo scozzese o con tre splendide righe, in alto, a chiusura, come il capitello colorato di una dorica colonna, rigorosamente riproducenti il vessillo nazionale. Mi sono sempre domandato, o almeno allora lo facevo, come l’economia abbia la capacità di perdonare e di insabbiare le emozioni che lascia la storia prima che l’uomo razionalmente vi arrivi. Talvolta sembrerebbe essere involontariamente una buona medicina. E sì che anche a Rodi, la seconda guerra mondiale aveva lasciato il suo bel segno. Probabilmente, anche la non lontana caduta del muro di Berlino, fresca di quattro anni appena, aveva contribuito a suo modo a diffondere un clima più disteso, di diffusa tranquillità e poi, c’era sempre quella sensazione di fondo, non ben definita ma onnipresente, che mi faceva intravedere in questo popolo il marchio della sopportazione. Sarebbe stato poi, dopo il mio trasferimento che alfine avrei compreso certe alchimie. Mentre avrei perduto per sempre Lindos e la spiaggia di luna ormai presenti solo nei ricordi, oggi sepolti da un uragano che qui chiamano progresso.

(Estratto da "Da Pericle a Papadimos", Capitolo I, "Genesi di un amore")


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