“Il film inizia dopo che Tien (Tony Jaa) ha perso la sua abilità di combattere e il suo amato patrigno nel raid condotto da Jom Rachan (Saranyu Wonggrajang). Tien è riportato in vita con l’aiuto di Pim (Primrata Dechudom) così come Mhen e gli altri abitanti del villaggio Kana Khone. Nella profondità nella meditazione insegnata da Phra Bua, Tien finalmente è in grado di raggiungere il ‘Nathayut’. Il suo talento è messo alla prova ancora una volta, quando i suoi rivali tra cui il la guardia armata d’orata del re, il killer misterioso in nero, e Bhuti Sangkha (Dan Chupong) ritornano per lo scontro finale”
Coreografie curatissime, costumi e scenografie sfarzose, utilizzo poetico di incredibili effetti digitali. Jaa si dimostra all’altezza del duplice ruolo di protagonista/regista di quello che è diventato – suo malgrado – il fenomeno cinematografico di riferimento nella moderna cinematografia thai. Tuttavia si fa evidente una forte virata fantasy della saga, con relativi rimandi narrativi alle tradizioni più esotiche che, oltre a soffocare il ritmo stesso della vicenda, denota indubbiamente una preoccupante deriva estetica, caratterizzata da una messa in scena patinata per pubblico occidentale poco esigente.
Si delinea così l’anticamera del vuoto di idee rimproverato da molti critici togati nei confronti del cinema orientale d’arti marziali, a loro parere reo di non aver mai brillato per sceneggiature complesse (salvo poi riconoscere senza vergogna la grandezza di Bruce Lee e di registi come King Hu o Yuen Woo-ping). Forse solo una leggerezza frutto delle pressioni produttive o semplicemente un progetto cui non vi era molto da aggiungere in termini creativi, resta di fatto che Tony Jaa questa volta non emoziona né stupisce, e questo non può che amareggiare considerando il ruolo meritatamente conquistato nel contemporaneo cinema di arti marziali.
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