Con pochissime variazioni Shindo è riuscito a trarre da questa favoletta morale un film visivamente poetico, affascinante e inquietante, ispirato dal teatro Noh e Kabuki, e dal punto di vista tematico un’opera che è allo stesso tempo classica nell’argomento e rivoluzionaria per il realismo con cui riesce ad inquadrare (anche, ma non solo, tramite le implicazioni erotiche del racconto) l’evoluzione sociale della figura femminile nella società giapponese, che così profondamente era mutata e continuava a mutare in quegli anni. “Onibaba - Le assassine” è la dimostrazione di come sia possibile trasportare un soggetto dalla dimensione leggendaria a quella cinematografica in maniera realistica e drammatica. Le atmosfere del film e alcune sequenze realmente angoscianti fanno sì che alcuni critici considerino quest’opera un horror a tutti gli effetti, mentre altri parlano di dramma, dramma ad ambientazione storica oppure di ibrido horror-erotico.
Shindo scelse di girare in bianco e nero in un momento in cui si stava già facendo largo il cinema a colori, e come sfondo della vicenda la campagna giapponese del XIV secolo. A quel tempo infuriavano le battaglie tra clan rivali e gli uomini, che venivano precettati per combattere, non solo dovevano abbandonare la propria casa e la propria famiglia, ma anche il lavoro dei campi; la conseguenza era una situazione di estrema povertà nella quale le persone dovevano fare letteralmente di tutto per sopravvivere, incluso rubare e, all’occorrenza, uccidere. È proprio quello che fanno le protagoniste del film, una donna e sua nuora, che vivono assieme in una misera capanna aspettando ansiosamente il ritorno di Kichi, figlio dell’una e marito dell’altra. Le due donne campano uccidendo soldati e samurai di passaggio e depredando i loro cadaveri delle armature e delle armi, che poi rivendono per qualche ciotola di riso. Un giorno questo monotono ménage viene turbato da Hachi, un individuo squallido e sgradevole e, probabilmente, un disertore. Il sesso sembra l’unica distrazione possibile da una vita di stenti, e ben presto Hachi diventa l’amante della più giovane delle due. La suocera si rode di gelosia - quella di una donna per la quale le attenzioni maschili sono ormai precluse – e reagisce male, cercando di troncare la relazione spaventando la nuora con storie dell'Inferno buddista, dove orribili demoni tormentano coloro che commettono dei peccati, per esempio cedendo alla lussuria. Ma la tattica è fallimentare, perché il desiderio è più forte della paura… Non è solo la gelosia che la ossessiona, ma anche la paura che l’altra la abbandoni: il lavoro dei campi è troppo pesante per una donna anziana, e lei da sola non sarebbe in grado di assalire i samurai; sa bene che senza la nuora al suo fianco riuscirebbe a stento a sopravvivere. È così che, quando viene in possesso di una strana maschera appartenuta ad un generale ucciso a tradimento, l’anziana donna si ritrova tra le mani lo strumento adatto per la sua vendetta…
Il paesaggio campestre, esaltato dal bianco e nero, asserve un duplice scopo: se da un lato possiamo vederlo come metafora delle più torride passioni umane, così sanguigne e in se stesse primitive, dall’altro riporta l’elemento di mistero e paura ancestrale della maschera-fantasma “Onibaba” all’elemento cui appartiene, la natura. È per questo che tutta l’azione si svolge nei campi di susuki, la pampa giapponese, un claustrofobico dedalo di canne altissime. A questo ambiente essenziale e spirituale, ma anche inospitale, il regista dedica molta attenzione. Visivamente i momenti più belli sono proprio quelli in cui le inquadrature indugiano sulle canne scosse dal vento e sull’ampio cielo, ora placido ora gravido di pioggia, oltre che sui corpi seminudi e sudati delle due donne. La musica, che comincia con un ritmo ossessivo e tribale e incalza con fiati stridenti, contribuisce non poco all’atmosfera generale di malcelata tensione emotiva.
Questo racconto i cui personaggi sono tutti amorali, egoisti, manipolatori e sottilmente violenti è un’amara riflessione sulla solitudine esistenziale e sulle bassezze che l’uomo è capace di compiere in situazioni estreme; in questo caso, la necessità di sopravvivere in un ambiente degradato ed ostile riporta in primo piano bisogni primari come il cibo e il sesso a discapito di qualsiasi convenzione sociale o morale. Ma è anche, e prima di tutto, un film erotico, carnale, in cui le canne scosse dal vento sono l’immagine di un inferno di passioni che intrappola i tre personaggi principali: i due amanti e la suocera. Tra l’erba la nuora corre di notte per raggiungere il suo amante; tra l’erba la suocera le tende i suoi agguati. Sempre tra l’erba si trova “il pozzo”, un’apertura naturale nel terreno che le due donne utilizzano per far sparire i cadaveri dei samurai uccisi. Il pozzo è un luogo del mistero, e il luogo dove il fato si compierà per dare una fine alla vicenda, non scevro da sottesi freudiani, ma per il resto il fulcro del film, proprio come nella leggenda da cui è ispirato, è la maschera. Kaneto Shindo affermò che gli effetti della maschera su chi la indossa sono il simbolo della deturpazione delle vittime dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, mentre il suo film mostra l'effetto traumatico di quegli avvenimenti sulla società giapponese del dopoguerra.
E che dire delle due donne? A mio parere sono entrambi personaggi straordinari, che di certo non incarnano lo stereotipo della donna devota, dell’angelo del focolare che tanta cinematografia (e letteratura) dell’epoca ci descrive, tipico di una società nata dalle ceneri di un feudalesimo ancora non del tutto scomparso nella forma e nella sostanza. Non parlo solo della nuora, che si dà ad un amore clandestino contro il parere della suocera (in teoria, scomparso il marito, nuovo capofamiglia); anche la suocera, che non accetta di essere messa da parte per il bene di una donna/coppia più giovane, con il suo comportamento spregevole ma profondamente umano rappresenta un elemento di rottura con il passato. Per capire quanto è rivoluzionario lo sguardo di Kaneto Shindo si pensi a come, più o meno nello stesso periodo, il cinema giapponese mostrasse immagini molto più tradizionali(ste): il film del 1958 “La ballata di Narayama” di Keisuke Kinoshita (ma esiste un remake di Shohei Imamura del 1983) è incentrato su un’anziana donna che, per conformità a logiche sociali spietate diffuse nell’antico Giappone, inevitabili per non far cadere la propria famiglia in disgrazia, nell’inverno dei suoi 70 anni si reca a morire da sola sulla cima di un monte e lo fa serena, sicura di aver adempiuto fino all’ultimo al suo dovere di madre.
Questa visione della donna come di un essere fisico, carnale e non del tutto “addomesticabile”, così nuova per l’epoca, spesso non viene riconosciuta, anche perché questo film, purtroppo, non ha mai avuto la notorietà che meriterebbe nemmeno tra gli estimatori di Shindo.
Il tema meriterebbe ulteriore approfondimento, ma oggi ho deciso invece di andare a nell’origine del mito, perché, benché molti non lo sappiano, Onibaba, oltre che una leggenda buddista, è anche una figura molto famosa del folclore giapponese. Il prefisso “oni” nel nome indica un mostro che corrisponde all’incirca al nostro orco e gli orchi, si sa, in genere si cibano di carne umana: è proprio questa l’occupazione preferita di questo yokai che, però, ha le fattezze di una donna vecchia e raggrinzita. Spesso la si raffigura come un essere dall’aspetto disordinato, i capelli scarmigliati, una grande bocca e un coltello da cucina, oppure seduta con un rocchetto di filo tra le mani. Un essere che ha l’abitudine di nascondere il suo aspetto demoniaco il più possibile per poter cogliere di sorpresa le sue vittime.
Altri nomi che le si attribuiscono sono Strega Demone, Vecchia Strega, Donna delle Montagne, Folletto di Adachigahara e Kurozuka. Si dice che proprio in una caverna o in un’abitazione nei pressi di Adachigahara sia vissuta la donna che ispirò questa leggenda, e che in un piccolo museo locale siano conservati i suoi resti, la pentola di cottura e il coltello utilizzati per uccidere e cucinare le sue vittime. Questa donna sarebbe morta nella vicina località di Kurozuka. In effetti, in Giappone esiste una località turistica che si chiama "Adachigahara Furusatomura Village" che altro non è che una replica di un villaggio tradizionale giapponese. Pare che la mascotte del villaggio sia Bappy–chan, un mostriciattolo con corna e zanne e l’espressione accigliata ispirata ad Onibaba, ma resa tenera e amabile, totalmente in contrasto con la terribile genesi dell’Onibaba e con la sua immagine proposta dall’arte tradizionale. Inutile dirlo, su Bappy–chan è nata una fiorente attività di merchandising.Della storia di Onibaba esistono diverse versioni, e quella che vi riporto è forse la più agghiacciante, oltre che quella più diffusa. In passato, presso una ricca famiglia di Kyoto, nacque una bambina che, sebbene apparentemente serena e in buona salute, all’età di cinque anni non aveva ancora pronunciato una sola parola. Preoccupati e disperati, i suoi genitori consultavano un medico dopo l’altro, ma senza alcun risultato, finché un giorno non conobbero un famoso indovino che disse loro che l’unica possibilità era nutrire la bambina con il fegato fresco di un feto vivente. L’ingrato compito fu affidato alla balia della bambina: la donna salutò la propria figlioletta, coetanea dell’altra, le regalò un o-mamori, un particolare amuleto della fortuna, e si mise in viaggio. La ricerca durò settimane, le settimane divennero mesi, e infine la balia, stanca e affaticata, giunse ad Adachigahara. Lì decise di sistemarsi temporaneamente in una grotta nella speranza di incontrare tra i viandanti di passaggio anche una donna gravida. Il caso volle che passassero anni prima che una donna incinta, che viaggiava sola, si avvicinasse alla grotta. La balia, ormai in là con gli anni e quasi rassegnata a non riuscire nel suo intento, senza alcuna esitazione saltò addosso alla donna e la colpì con il suo coltello. Fu solo dopo che si fu impossessata del suo raccapricciante trofeo che si soffermò ad osservare la sua vittima, e si accorse che la donna indossava l’omamori che aveva dato a sua figlia molti anni prima. Senza volerlo aveva dunque ucciso la sua stessa figlia e il suo nipotino non ancora nato! Resa folle dal dolore, la balia si trasformò in uno yokai e da allora cominciò ad assalire i passanti e a nutrirsi della loro carne.L’Onibaba è un esempio della eccezionale varietà del folclore giapponese, che anche per questo risulta per noi incredibilmente alieno. E pauroso: la maggior parte di questi mostri hanno una natura dispettosa e non esitano a spiare o terrorizzare gli esseri umani, oppure possono mimetizzarsi tra di loro rivelando la loro vera natura solo in determinate circostanze. Ma di questo mi riprometto di tornare a parlare in futuri articoli.