“I bet you remember every single person that opened a career door opportunity for you. Be a door opener. Be remembered”.
(“Scommetto che vi ricordate di ogni singola persona che vi ha aperto la porta di un’opportunità di carriera. Siate apritori di porte. Fatevi ricordare”).
L’autore è Vala Afshar, un blogger dell’Huffington Post americano, esperto in marketing business intelligence e social network e quasi tutti i suoi tweet, come è facile immaginare, sono improntati al raggiungimento degli obiettivi personali e aziendali.
A colpirmi è stato il fatto che, a differenza di molti messaggi analoghi che si trovano in rete o nei libri di motivazione e crescita personale, per una volta non si suggerisce una tecnica o una strategia di successo individuale, bensì un comportamento volto ad aiutare il prossimo a trovare la propria strada.
Quelle parole mi hanno obbligata a tornare indietro nel tempo e a dare un nome e una faccia alle persone che mi hanno aperto le porte per offrirmi un’opportunità quando muovevo i primi passi nel mondo del lavoro. Perché, se è vero che le occasioni vanno create, è altrettanto vero che senza qualcuno che ci dia fiducia tutto diventa più difficile. Lo sanno bene molti giovani, ma anche imprenditori e manager non proprio alle prime armi, che oggi, complice una crisi devastante, sono costretti a rinunciare ai propri sogni per non aver trovato nessuno disposto ad aprire loro una porta.
Essere “apritori di porte”, per chi si trova in una condizione tale da poter rivestire questo ruolo, suppone spesso uno sforzo minimo che molti, tuttavia, per pigrizia, superficialità o egoismo non compiono. Una volta conquistata la poltrona c’è chi, forse anche per timore di vedersela portar via, preferisce chiudere a doppia mandata la porta e non rispondere a chi, da fuori, bussa.
Tornando alle mie reminiscenze di giovane studentessa universitaria, aspirante giornalista senza alcuna esperienza, non posso che ringraziare le persone che per prime mi offrirono l’opportunità di imparare come funziona la redazione di una rivista da un lato e di un Tg dall’altro. La mia determinazione, fatta di curricula inviati senza sosta, idee di articoli, telefonate a tutti i media raggiungibili all’epoca, a nulla sarebbe servita se qualcuno, un giorno, non mi avesse detto: “Va bene, facciamo una prova”.
Ricordo bene l’emozione della mia prima intervista telefonica e le 1000 battute che ne trassi e che inviai via fax al giornale (era una notizia insignificante nell’economia generale della rivista ma importantissima per me), e ancora meglio ricordo la gioia nel ricevere la telefonata del caporedattore che mi annunciava che avrebbe pubblicato il pezzo e me ne avrebbe chiesti altri in seguito. Quel giorno la porta si era socchiusa grazie alla fiducia di una persona che di me conosceva soltanto un curriculum quasi vuoto. A spalancarla ci pensai io nei mesi successivi, lavorando fino a realizzare il mio sogno.
Dopo questa esperienza ho capito che offrire un’opportunità, può regalare soddisfazioni pari a quelle del riceverla. Per questo in tutti i miei anni di lavoro ho cerato di aprire porte ogni volta che mi è stato possibile e ho francamente sofferto quando qualcuno l’ha richiusa senza capire, senza approfittarne, senza nemmeno un grazie. Ma questo fa parte del gioco della vita.
Il fatto che il tweet che ha ispirato queste considerazioni venga d’oltreoceano non credo sia casuale. La mentalità americana, pur in un’ottica di competizione, guarda agli altri come risorse e non come nemici o soggetti inferiori. Purtroppo nel nostro paese (ma anche in Spagna dove vivo) l”aprire porte” non è considerata un’attività particolarmente saggia ed è spesso subordinata a un tornaconto personale.
Il caso di un caro amico, presidente di una delle tante aziende italiane che operano in Internet con buoni risultati, ma che per crescere e raggiungere obiettivi più ambiziosi hanno bisogno di investimenti, non fa che confermare la mia idea sulla difficoltà di trovare door opener in Italia.
Qualche giorno fa, reduce da un viaggio negli Stati Uniti dove aveva avuto modo di incontrare diversi esponenti di fondi d’investimento potenzialmente interessati al suo progetto, l’amico in questione mi raccontava del differente approccio di americani e inglesi rispetto a quello dei colleghi di casa nostra con lo stesso ruolo.
“La cultura anglosassone tende a puntare sulle persone prima ancora che sul progetto. In tutti i colloqui che ho avuto la prima cosa che mi hanno domandato è stata di raccontare la mia storia personale e quella dei miei soci. Mi hanno chiesto di parlare della squadra che lavora al mio fianco in azienda. In Italia nessuno si è sognato di chiedermi il mio percorso umano, i miei valori e le mie priorità. E tantomeno si sono interessati ai miei collaboratori. L’unica cosa che viene valutata sono i numeri e capita che qualcuno ti esponga le sue condizioni per un eventuale investimento prima ancora di capire chi sei e come lavori. Negli Usa mi è stato detto chiaramente che la decisione di investimento si basa per il 70% sull’imprenditore, per il 20% sul team e il progetto e il solo per il 10% sulla tecnologia, perché quella è replicabile. Le persone no”.
In attesa di sapere se il mio amico incontrerà il suo “apritore di porte” oggi ho deciso che, nel mio piccolo (piccolissimo), cercherò di essere una door opener ogni volta che me ne capiterà l’occasione. Perché ci sono molti modi per essere ricordati, ma tra i tanti, quello di aver aiutato qualcuno a raggiungere il proprio sogno è tra i più belli.
E allora, per dirla con Vala Afshar: ”Be a door opener. Be remembered”.
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